Celebrato come il più eminente scrittore cinese del Novecento e fra i creatori della lingua scritta contemporanea, Lu Xun è il più rappresentativo fra gli uomini colti che si riconoscono nella rivoluzione popolare. La presente raccolta costituisce un condensato della sua estesa produzione saggistica (sedici volumi di saggi e discorsi) e comprende testi fra il 1918 e il 1936, anno della sua morte.
I testi si situano in un periodo di profonde trasformazioni: la modernizzazione della società, la nuova centralità politica delle masse contadine e l’avanzare della rivoluzione socialista. Legati al tempo e all’occasione quotidiana (il trasformarsi dell’istituzione familiare, una descrizione di Shangai, il teatro moderno, i costumi sessuali, l’avvento della fotografia…) fanno emergere le contraddizioni fra realtà privata e condizione storica, fra la richiesta immediata di felicità e la lotta sanguinosa «per il futuro», tra tradizione e distruzione, tipicità cinese e dimensione universale.
Non solo, dunque, questi scritti costituiscono un viatico prezioso per comprendere l’evoluzione della Cina nel Novecento; nella loro acutezza, essi acquistano altresì un’ampiezza di significato che va oltre i confini di un paese e di un periodo determinato: è nella contraddittorietà della vita, nella miseria, nell’oscurità di un mondo che cambia, che si definisce il rapporto reale tra la modernità e la tradizione cinese, per cui questa può rimanere viva solo a misura che se ne distrugga il dominio, solo nel dare a sé e alle cose nuova forma.
«Nonostante ogni possibile apparenza contraria – scrive Edoarda Masi nella sua Introduzione –, l’opera di Lu Xun si pone contro le correnti letterarie e fuori dalle correnti politiche, e fa tutt’uno con la società del suo paese, nella complessità di conflitti laceranti che da oltre un secolo la percorrono. Per questo agli eredi del privilegio – custodi del passato o acculturati dall’Occidente o avanguardisti “rivoluzionari”, o membri delle varie nomenklature – egli appare come un empio iconoclasta o un eretico. Traccia i limiti della sfera della letteratura, ne ridimensiona la funzione, si oppone alla pratica di sopravvalutarla attribuendole compiti estranei: perché conosce l’unificazione dispotica, dove ogni attività intellettuale è indifferentemente ricondotta al controllo del popolo dall’interno delle coscienze, prima ancora che con mezzi violenti o polizieschi. “Nei periodi di dispotismo si può permettere l’esistenza degli intellettuali […]. Solo quando i movimenti di pensiero si trasformano in movimenti reali diventano pericolosi”.
[…] È assente in Lu Xun l’attesa di soluzioni definitive ai mali della società e alle contraddizioni fra gli uomini, di conciliazioni celesti trasferite sulla terra – e forse è questo il suo materialismo di cinese e certamente la sua grandezza. Il sacrificio, l’oppressione e il sangue versato sono senza recupero e senza perdono. “Lasciate che seguitino a odiarmi, io non ne perdono neanche uno”, scrive dei suoi nemici, poco prima della morte. La capacità di lotta, di amore e di odio e la forza nel rappresentarli si fondano sull’assunzione dell’irrecuperabile e sulla volontà ragionevole, interamente nella dimensione biologica e terrestre».
Lu Xun, pseudonimo di Zhou Shuren (Shaoxing, Zhejiang, 1881 - Shanghai, 1936) narratore e poeta, saggista e critico letterario, è considerato il padre della letteratura cinese contemporanea, il primo ad aver scritto un racconto (Il diario di un pazzo) in cinese moderno, attingendo largamente dalla lingua parlata. Tra le sue opere ricordiamo Alle armi (1923), Errare incerto (1926), Storie rivisitate (1935). Oltre alla Falsa libertà, Quodlibet ha pubblicato Erbe selvatiche (2003), una raccolta di brevi testi riconducibili al sanwen, uno dei numerosi sottogeneri della vastissima tradizione letteraria cinese, al confine tra la prosa e la lirica.