A cura di Giorgio Zampa
Notizia sull’autrice e sul testo di Elena Frontaloni
Quarta edizione riveduta e corretta
«Sono nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: “Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?”.
Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun significato, ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire mettermi fuori del portone e richiuderlo.»
«Alla Ginzburg sono sempre stata, lo sono e continuerò ad esserlo, gratissima. […] Lei ha sempre amato questo libro, con quelle manomissioni voleva renderlo più accessibile. Io salto i verbi come se qualcuno mi corresse dietro; i miei passaggi sono ponti levatoi mai abbassati; lei riduceva più intellegibile il mio modo di scrivere; ma io preferivo tenermi i miei difetti. Avevamo ragione tutte e due». Sono alcune righe scritte da Dolores Prato nel 1980 al direttore dell’«Espresso», in risposta a un articolo in cui veniva definita «rabbiosa» nei confronti di Natalia Ginzburg. Alle spalle di questa precisazione c’è una vicenda editoriale divenuta pubblica: le oltre millecinquecento cartelle di Giù la piazza non c’è nessuno consegnate nel 1979, di fretta, dall’ottantenne Dolores Prato a Natalia Ginzburg, vennero ridotte, per esigenze editoriali, a sole trecento pagine, pubblicate da Einaudi nel giugno 1980. L’autrice, scontenta dell’edizione parziale, continuò a rivedere il testo e preparò un nuovo dattiloscritto, il quale venne pubblicato nel 1997 da Giorgio Zampa, nella versione integrale che qui riproduciamo.
Giù la piazza non c’è nessuno racconta di un’infanzia primonovecentesca trascorsa ai bordi d’Italia (tra case e volti di Treia, un borgo dell’entroterra marchigiano), insieme a una miriade di oggetti e parole disperse, a uno zio mezzo prete, mezzo pittore, mezzo alchimista e a una zia nubile dalle strane acconciature, sorpresa a leggere e rileggere Madame Bovary. La bambina che guida la penna della vegliarda non ha mai saputo, non sa perché ha una madre che non si comporta da madre, essendo tale funzione esercitata da una zia che all’ufficio materno mal s’adatta. Lo zio fa da padre, manifestando un amore quieto e misterioso per la piccola che gli cresce accanto scostante, chiusa, restia a chiedere come e perché venisse allevata da quasi estranei.
A base del lavoro sta una serie smisurata di appunti e brogliacci accumulati dall’autrice nel corso di tutta la vita. La forma prescelta è quella della «lassa» narrativa: una serie di tessere che mimano l’andamento divagante, occasionale degli appunti, ma s’incastrano l’un l’altra grazie a sottili riprese. La prosa così dimessa, feriale, aperta alle vivide suggestioni del parlato, è il risultato di una testarda disarticolazione delle strutture retoriche della tradizione italiana, quei «ponti levatoi mai abbassati», quei «miei difetti» a cui Dolores Prato non fu mai disposta a rinunciare.
Come leggere questo libro autenticamente fine secolo, questo capolavoro a rischio di oblio? Esso non è nato dal proposito di creare un organismo narrativo, di compiere «l’opera»; non è letteratura da azienda editoriale o da laboratorio universitario; meno che mai vuole riuscire gradito a chi guarda volentieri all’indietro o agli analisti del presente. Forse il modo appropriato per intenderlo, come annotava Giorgio Zampa, è considerarlo l’avvio di un’istruttoria contro ignoti. Nessuna commiserazione nei propri confronti, nei confronti di un’esistenza di reietta, di creatura venuta al mondo contro il volere del mondo, ma giudizi asciutti, magari duri, spesso ironici, su persone vicine; e dichiarazioni di amore illimitato. Se si volesse arrivare ad ogni costo a una definizione prossima alle motivazioni profonde della scrittrice, si potrebbe parlare di uno sterminato soliloquio, destinato a rimanere inascoltato.
Dolores Prato nasce a Roma il 10 aprile
1892 da padre ignoto e da Maria Prato,
all’epoca già vedova. Dal 1895 è a Treia,
affidata allo zio prete Zizì, di lì a poco
migrante a Buenos Aires, e alla zia
nubile Paolina. Istruita nelle scuole
comunali del paese, è in seguito
educanda presso il collegio annesso al
monastero di Santa Chiara, sempre a
Treia. Nel 1912 si trasferisce a Roma,
dove frequenta la facoltà di Magistero.
Dopo la laurea nel 1918 insegna a
Milano, in Toscana, nelle Marche; qui
viene sollevata dal ruolo per la sua
avversione al regime fascista. A
partire dagli anni Trenta vive
stabilmente nella Capitale e si occupa
in questo tempo di una ragazza amica,
afflitta da gravi problemi psichici.
Finita la guerra è reintegrata come
insegnante e collabora con alcune
testate, soprattutto «Paese Sera», con
articoli su Roma antica e moderna.
Partecipa a concorsi letterari e
giornalistici, vincendo per esempio nel
1965 lo «Stradanova» di Venezia con
Scottature. Nel 1980 pubblica per
Einaudi Giù la piazza non c’è nessuno,
dedicato all’infanzia trascorsa a Treia,
in una versione tagliata e ricomposta
da Natalia Ginzburg. Mentre pensa a
come dare alle stampe la versione
integrale del libro, avvia la
composizione del lavoro
sull’educandato, interrotta da
problemi di salute nel maggio del 1982.
Muore ad Anzio presso una clinica a
lunga degenza il 13 luglio 1983.
Di Dolores Prato Quodlibet ha
pubblicato Scottature (1996), Giù la
piazza non c’è nessuno (versione
integrale, 2009), Sogni (2010), Roma,
non altro (2022).