Recensioni / Cronache dal Bassomondo

Noi italiani, si sa, siamo poco credibili quando affrontiamo la rappresentazione seria della vita quotidiana, quando ci sforziamo di creare personaggi a tuttotondo che si sviluppano insieme all'ambiente circostante, e insomma quando proviamo a costruire quello che una volta si chiamava legittimamente romanzo. A noi si adattano meglio gli aneddoti e le peripezie sfilacciate, varie e monotone insieme: quelle preromanzesche dei novellieri antichi, e quelle postromanzesche dei prosatori umoristici o allegorici che descrivono rocambolesche ma minimali “avventure” - nel senso che la parola ha in Bontempelli, in Campanile e in Calvino. Ciò dipende, anche questo è noto, dal fatto che non abbiamo attraversato una vera modernità borghese: la nostra è una nazione infantile e decrepita, precaria e immobile, che sta sempre per maturare e non matura, che sta sempre per tramontare e invece non tramonta mai, estenuandosi in un'eterna decadenza. Così, nell'Otto-Novecento, ce l'hanno descritta gli ultimi sfortunati riformatori (Salvemini, Gobetti) e i narratori-antropologi che hanno dato corpo poetico alla nostra putrefatta vita sociale (da Manzoni a Gadda, da De Roberto a Brancati). Nelle loro panoramiche emerge un mondo in cui la primitività si mischia patologicamente alla sofisticazione; un mondo in cui un degrado al tempo stesso animalesco e barocco, insieme col progresso reale, soffoca anche quello fantastico, e impedisce la messa a punto di strutture romanzesche abitate da figure vive, integre, progettuali. Sembra che in Italia si possa fotografare attendibilmente solo una folla amorfa; oppure, se si inquadrano dei singoli, una serie di maschere sordide e di ridicole marionette. La società italiana è comica, ma la sua comicità non si esprime nell'umorismo corroborante che scaturisce dall'abitudine a una conversazione civile, bensì nell'assenza di un autentico dialogo comunitario; è una società sopraffattoria, ma non perché sia animata da una dinamica lotta tra le classi, bensì perché è dominata da una paludosa logica corporativa: motivo per cui, quando proviamo a rappresentare tragedie titaniche, finiamo nella cartapesta del pulp o del melò. Più credibili, nei nostri scrittori, risultano perciò le descrizioni di quella “stabile provvisorietà” che permea il nostro fatiscente universo sociale. Non per caso uno dei maggiori prosatori italiani d'oggi, Ermanno Cavazzoni, ha fatto della Fatiscenza la sua musa, anzi la sua Weltanschauung; e pur avendo esordito negli anni Ottanta, è subito sfuggito alle richieste di romanzi stereotipi agitate da un'editoria ormai immemore della tradizione. Il reggiano Cavazzoni, esperto di poemi cavallereschi e matti d'Emilia, una tradizione dietro di sé ce l'ha, e robusta. E' quella poetica stralunatamente padana in cui l'esuberante comicità di Zavattini confina con le satire antiburocratiche di Frassineti, e lo stilizzato postavanguardismo dei casi clinici di Celati sfiora il manierismo onirico di Fellini, che dal primo libro cavazzoniano, “Il poema dei lunatici”, trasse il suo ultimo film “La voce della luna”. Ma questa tradizione si nutre anche di suggestioni meno geograficamente definite: l'“umorismo inutile” di Campanile, le tipologie dell'Oulipo, le clownerie (e)scatologiche di marca beckettiana, l'amalgama di un sonnolento surrealismo. Narratore spurio, Cavazzoni incanala il suo estro affabulatorio in forme che gli consentano di evitare a priori l'innaturalezza di un articolato plot narrativo. Da un lato riduce il racconto a una sgangherata successione di gag, dall'altro ingloba la narrazione in un catalogo o in una parodia di trattato. Se il gag scansa il realismo romanzesco per difetto di costruzione, la divagazione organizzata in sistema classificatorio gli sfugge invece per un eccesso di astrattezza. Queste cornici “saggistiche” risolvono a monte il problema della legittimazione contenutistica e formale: una volta fissato lo schema, l'autore è libero di modulare senza problemi tecnici quella sua voce furbesca e ottusa, nella quale il timbro di un goffo comiziante emiliano si fonde a un monologo autistico da fool. Con questa voce, Cavazzoni sembra poter dire qualunque cosa senza steccare, elencando con uguale noncuranza microteorie ingegnose e parabole stordite, levigati bestiari e biografie disumane. I suoi libri somigliano ad archivi polverosi, a cosmi distopici abitati da deficienti che con la scialba assurdità del loro ménage dimostrano l'insensatezza di qualsiasi contesa sociale e culturale. Ma forse proprio perché non ha la superstizione del romanzo, questo non-romanziere che racconta una realtà refrattaria agli sviluppi narrativi ci ha regalato il suo libro più felice quando è andato più vicino a scriverne uno. Uscì nel '99 da Einaudi come “Cirenaica”, e ora lo ristampa Quodlibet col titolo più didascalico di “La valle dei ladri”. Sostituendo ai cataloghi oulipiani una concretissima allegoria narrativa, Cavazzoni trasforma qui le allucinazioni paranoiche dei suoi “lunatici” in un universo “reale”, oggettivo, che sta a mezza via tra una cloaca e un luna-park, tra uno scalcinato dopolavoro e un sulfureo oltretomba alla Manganelli. Si tratta di un “bassomondo” truffaldino e demente, dove delle identità e delle azioni umane è rimasta in piedi solo la facciata. Tutti nella “Valle” sfregiano l'ambiente “senza ragione (...) secondo l'irreversibile legge dell'entropia universale, per la quale è probabile che un sistema ordinato attiri i teppisti, mentre è improbabile che i teppisti costruiscano un treno o ne ricostruiscano uno bruciato”. Questi teppisti sono una fauna simile a quella della “Storia naturale dei giganti”, delle “Vite brevi di idioti”, degli “Scrittori inutili” e di altre opere cavazzoniane. All'inizio del libro, proposto come un manoscritto trovato alla stazione di Milano, ne incontriamo subito una banda. Oltre che dal narratore, è formata da un sognatore febbrile “albuminoso in un occhio”, da uno sdentato vile e appassionato di pali da svellere, da un “maligno” sobillatore, e da Bonanno, un capro espiatorio che come capita in ogni clan s'identifica con gli aggressori e dà addosso alla sua gamba zoppa: “l'avrebbe lasciata corrodere in uno scolo dell'acqua, per poterci chiamare a guardarla e schernirla”. Se i teppisti aiutano “le cose a sparire”, è perché vivono sprofondati in un “tempo vuoto” che somiglia “al pomeriggio della domenica”, e dunque devono sopportare quella noia leopardiana che nelle province del tardo Novecento si esorcizza lanciando sassi dai cavalcavia. A favorire la futile e cosmica deriva del bassomondo, oltre alla violenza, contribuisce la frode: accanto all'apatica facinorosità dei vandali cresce un'industria di truffe minime ma endemiche. Il suo centro è la stazione, dove i viaggiatori, approdati laggiù per un misterioso disguido mentre credevano di raggiungere Firenze o l'Olanda, vengono accolti come vecchie conoscenze da drappelli famelici di finti parenti, e nel primo spaesamento sono spogliati di tutti i loro averi. In queste truffe si manifesta una socialità perversamente italiana. Nella valle la vita pubblica è ridotta a una pantomima domestica e tribale, a un grumo d'istinti insieme prepotenti e svogliati; ma d'altra parte, l'intera routine domestica si regge su pose retoriche impastate di cavillosità avvocatesca e pathos operistico. La famiglia è letteralmente “una formazione parassitaria che nasce dai tentativi di furto a catena”. Burocrati e artigiani s'insediano nelle case con la scusa di far rilevazioni e se ne vanno dopo avere svuotato le dispense, ma nel frattempo discutono del loro presunto lavoro con sussiegoso sfoggio di termini tecnici. Gli ufficiali indossano divise rappezzate e arlecchinesche, eppure le esibiscono con l'orgoglio dei bambini che ricavano un distintivo da un coperchio di latta. Come accade nei giochi, in questa mise en abîme dell'esistenza quotidiana il mondo reale è ridotto a una serie di convenzioni, di emblemi scissi dalla spessa catena di vincoli che li rendono funzionali in società: un'insegna, un sedicente consiglio di amministrazione, dei biglietti di lotteria, una veste da cerimonia... Più di ogni altra attività, è la politica a mostrare i suoi meccanismi primitivi. “Sono molti quelli che si autoproclamano sindaci”, registra il narratore: ed è gente che, con un codazzo di assessori altrettanto improbabili, s'aggira tra i binari “col problema del vitto”. Nel bassomondo, insomma, amministrazione e raggiro sono una cosa sola: nel senso, certo, che i poteri formali si rivelano una mera truffa, ma anche nel senso che le truffe vengono praticate con “un curioso rispetto delle formalità”. I gesti più animaleschi s'accordano alla pompa istituzionale: il che significa che, molto italianamente, i valligiani mescolano alla lazzaronaggine dei picari il parassitismo dei piccoli borghesi. Ciò che un po' li redime, è il fatto che il loro cinismo sfuma nella credulità. Malgrado la spregiudicatezza con cui s'arrangiano, continuano infatti ad affidarsi miracolisticamente a enti pubblici che pure sanno posticci: e basta una voce inverificabile per indurli ad aspettare giorni che un treno riparta o riapra un'anagrafe. Strepitosa, in questo senso, è la scena nella quale alcuni abitanti del bassomondo, accampati all'ingresso di un ufficio, scoprono dopo molto tempo che i tipi al di là dello sportello non sono impiegati, ma un'altra coda di cittadini convinti che gli impiegati siano loro. La stessa ingenuità danneggia le truffe. Quasi mai commisurati al bottino, gli stratagemmi di scippatori e azzeccagarbugli tendono a tradursi in messe in scena assolutamente antieconomiche. Più che la furbizia reale si onora l'apparenza del machiavellismo, trasformando un'abilità che si legittima solo con l'efficacia in quell'abitudine gratuita, paradossale e magari masochistica alla mistificazione, di cui aveva già detto benissimo Prezzolini. Il “teatro” della truffa riunisce vere e proprie compagnie di commedia dell'arte che non si scollano più dalle loro maschere, e diventa presto indistinguibile dalla “realtà”. Chi finge d'essere la fidanzata o lo zio di un nuovo arrivato non esce più dalla parte; e così chi fa l'ingegnere, il santone, il console... E' dalle scene madri al limite del nonsense, predisposte per raggirare un malcapitato, che ruoli e rapporti prendono corpo, e la vita si reifica: la parola, il gesto impongono la cosa al di là di ogni verosimiglianza. Questa situazione rimanda a un procedimento tipico di Cavazzoni, e già assai sfruttato da Campanile, che potremmo definire “strategia del partito preso”. Lo si vede agire allo scoperto negli “Scrittori inutili”: dove si parte dal presupposto che le figure rappresentate siano appunto degli “scrittori”, mentre i loro connotati non giustificano minimamente la qualifica, dato che si tratta di vagabondi, scrocconi o imbecilli abbandonati a una vita tra canina e manicomiale. Nella “Valle” queste forme vuote sembrano attingere a usurati canovacci da avanspettacolo, a ricordi scolastici annebbiati, o a cronache politiche di un ingiallito XX secolo: e il tutto è poi frullato in quei miscugli di vaghe verità, di sentito dire e di boutade che affiorano nelle chiacchiere al bar sport. Di qui escono i più variopinti scampoli di modernariato: tarmate divise militari, commerci paleoindustriali da Monopoli, burocrazie da travet, rimpatriate tra colleghi da sketch tv anni Sessanta, mitiche signorine di Cincinnati languenti nei vagoni-letto, gangster in fuga con bionde hollywoodiane... La dosatura di monumentale e fumettistico, di pedestre e fiabesco su cui si basa questo immaginario è perfettamente calibrata nella toponomastica (“vicoli Midollari di Tarin”, “via del Corpo Genicolato”), nei nomi di associazioni e botteghe (la “polisportiva Rabarbaro”, il “Bar Chincaglia”) e in quelli padani, esotici, fantozziani o altisonanti delle innumerevoli comparse: Mastronardi, Turturro, il ministro Ricàsoli, lo zio Macario, i signori Mordacai e Kramer, il tenore Braganza... Il gusto per il puro flatus vocis è poi esaltato al massimo dall'uso che nel bassomondo si fa dei giornali, esemplari d'antan che i venditori rimontano con prassi dadaista e rivendono a clienti disposti a entusiasmarsi per il meteo come fosse un feuilleton. E', questa della stampa, una buona metafora della tecnica utilizzata dallo stesso Cavazzoni, che si dimostra a sua volta un provetto teppista nel giustapporre con approssimazione intelligentemente brutale i gerghi più diversi. L'impassibile, esilarante fluidità con cui li allinea porta a galla le associazioni mentali più politicamente scorrette, l'ignoranza e il puttanesco perbenismo che dominano la nostra società e che si celano appena sotto la vernice di una decrepita oratoria umanistica o di un italiano da verbale giudiziario. Basti qui un minimo esempio. “Nella famiglia di Annamaria sembrava (...) regnare quella serenità patriarcale che dà garanzie anche di igiene e di riservatezza”, recita un brano dove si parla dei legami parentali saldatisi a partire dalle truffe: e dove, a confermare l'intreccio indissolubile tra affetti e corruzione, l'idillica “serenità patriarcale” sfocia nella compunzione da annuncio erotico con cui si segnalano “igiene” e “riservatezza”. Cavazzoni non è un critico della cultura: ma proprio il suo disimpegno sornione gli permette di cogliere certe mostruosità sociali con una distratta esattezza più micidiale di un'accusa aperta e di un affondo analitico. E' appunto la poetica fisicità dei dettagli a fare della “Valle dei ladri” la riuscita, metafisica allegoria di un lentissimo crollo di civiltà. Nella conca del bassomondo la società affluente deperisce senza arrivare a una fine: si sopravvive anemici e catatonici, “per forza d'inerzia”, in una scarsità cronica di corrente, benzina e cibo. Tutto sbiadisce, nulla muore o nasce: anche la cultura è una fioca replica di quella moderna, che agonizza senza rinnovarsi ed evapora in una smemorata diceria. Non si ricorda una realtà differente, eppure ogni esperienza appare un déjà vu. E come è umano, questa fiacca apocalisse ispira bizzarre ipotesi teologiche: ci sono, ad esempio, sette che negli irraggiungibili altipiani stagliati all'orizzonte vedono un Olimpo di dèi beffardi; e c'è gente che, convinta d'esser spiata dall'alto, sventola le pudende davanti a grandi fratelli immaginari. Molti si sentono “personaggi inventati” e poi “abbandonati a se stessi”: nutrono la nostalgia di una indefinita patria altra, come se fossero turisti che a forza di adattarsi alle abitudini del luogo hanno scordato la propria origine. Malgrado guasti e inganni, insomma, le illusioni si confermano leopardianamente indistruttibili. Ma altrettanto naturale è il pessimismo cosmico di chi sospetta che il clinamen entropico del bassomondo rappresenti la vita tout court. “La vita, a volte, dicono incominci così, con lo sbandamento di un sistema automatico”, azzarda il narratore, pronunciando una frase filosofica, che però si lascia leggere anche come la semplice presa d'atto della circostanza per cui si finisce nel bassomondo a causa di prosaiche deviazioni ferroviarie. Ed è appunto la coincidenza “figurale” dei vari livelli il maggior pregio della “Valle”. Data la staticità di questi mondi grotteschi, surreali ma perciò anche realissimamente nostrani, chi prova a descriverli rischia sempre di cadere nel bozzetto da commedia all'italiana o d'insistere troppo sulle tinte cupe, magari ricalcando gli ipertrofici gliommeri gaddiani o gli scolastici inferi neoavanguardisti. Cavazzoni, poi, corre un pericolo anche maggiore: quello di trasformare la comicità “idiota” e anacolutica in un codice bamboleggiante e più convenzionale di qualunque burocratese, come fanno spesso Celati e i troppi suoi cloni. Ma in lui lo sguardo stralunato e falotico è genuino, e la sua prosa migliore riflette la felicità di chi non ha scopi né poetiche da sostenere. E' per questo che può recuperare una narratività sbrigliata e ficcarci dentro di tutto, ma senza mai enfatizzare una mescolanza di stili le cui componenti tratta al contrario come cellule indifferenziate. Ecco: la fatiscenza porta all'indifferenziazione, instilla quel senso di purgatoriale uniformità che al giovane Cavazzoni, arrivato a Bologna da studente, fece apparire la città nient'altro che una grossa periferia della sua Reggio. L'autore della “Valle” ci dice che non c'è quasi differenza tra reale e fantastico, tra fisico e metafisico. Quasi. Perché se dal bassomondo si torna a Milano, si scopre che lassù le truffe non servono solo a soddisfare un'esigenza del momento, non lasciano spazio a pigre anarchie. Lassù il ladrocinio è oliato: è un'industria che oltre tutto e malgrado tutto, ahimè, funziona pure.