Il suo successo affonda nel fenomeno del samizdat (che significa
autopubblicazione). È paradossale pensare, in tempi in cui ci sono più
selfpublisher che lettori, all'abnegazione con cui questi libri,
censurati dal regime stalinista, venivano letti febbrilmente,
diffondendosi attraverso un incessante passamano di copie - pochissime -
di norma in carta carbone, fino agli angoli più remoti del Paese. Oltre
al ruolo politico del «dissenso il fenomeno del samizdat divenne presto
anche una moda che raggiunse «le dimensioni dell'alcolismo» (leggere
autori pubblicati ufficialmente era considerato «poco elegante») fino a
varcare i confini nazionali per mano degli emigré.
«Uscito dalla stazione Savelskaja avevo bevuto per cominciare un
bicchiere di vodka del Bisonte perché so per esperienza che, come
decotto mattutino, il genere umano non ha ancora inventato niente di
meglio». Non solo vodka del Bisonte, anche quella del Cacciatore, quella
al Coriandolo, quella al limone, ër (miscuglio di birra e vodka),
xeres (vino sovietico, 19 gradi), fino alle ricette per assemblare
miscugli a base di vernice per mobili depurata, Eau de Cologne, lacca
per le unghie. L'opera di Erofeev, vissuto per anni come senzatetto
nelle fredde strade di Mosca, emarginato dallo stalinismo, per stile e
struttura allucinata, ricorda molto Paura e disgusto a Las Vegas di
Hunter Thompson, con l'alcol al posto della droga a fare da viatico per
la ricerca del sogno americano russo (e «saremmo degli idioti a non
cavalcare questo strano siluro fino alla fine»).
Attraverso gli occhi «inciclonati» di Venja («Ho molto vissuto, molto
bevuto, molto pensato, so, quello che dico») vediamo gli occhi della
Russia: «Il mio popolo che occhi, che ha! Sporgono sempre in fuori, ma
non c'è nessuna tensione, in loro. Completa assenza di pensiero, però
che potenza! (Che potenza spirituale!). Questi occhi non venderanno e
non compreranno niente. Qualsiasi cosa succeda al mio Paese, nei giorni
dei dubbi, nei giorni delle gravose riflessioni, nell'ora delle prove di
ogni tipo e delle sciagure, questi occhi non batteranno ciglio. Per
loro è tutta manna dal cielo...».
La sagacia, il delirio, la parodia, la provocazione di queste pagine, ne
fanno un libro leggero, ma non frivolo, intriso di interrogativi
religiosi, di slanci, di tenerezza, come tenera, e sempre consapevole, è
la lingua di Nori, qui mezzo e non fine. E dopo aver guardato negli
occhi di Venja («Oh, quanto torbidume, quanta deformità doveva esserci
in quel momento nei miei occhi, l'ho capito dai loro occhi, perché nei
loro occhi si rifletteva questo torbidume e questa deformità»), i nostri
diventano quelli dei passanti e dei compagni di viaggio, degli
avventori e dei negozianti, che lo accompagnano nell'ebbrezza: «Ma forse
questa è davvero Petukì?», «I lampioni splendevano in un modo
fantastico, splendevano senza tremolare. Forse ero davvero a Petukì?»,
«Non era Petukì, questa, no. Il Cremlino splendeva davanti a me in
tutta la sua magnificenza. Ecco! Quante volte ho attraversato Mosca in
lungo e in largo, sano di mente o privo di senno, quante volte l'ho
attraversata e non ho visto il Cremlino neanche una volta. E ecco che
adesso alla fine l'ho visto». Con i divertentissimi sproloqui di Erofeev
possiamo permetterci il lusso di «Non dimenticare la cosa più
importante, la commozione».