Erano russi, prendevano sul serio la letteratura, perché la letteratura
era una cosa dannatamente importante qualunque cosa accadesse nella
vita. La crisi dell’editoria non era neanche immaginata, la vita era
precaria mica la letteratura. Vivevano di letteratura, leggevano molto e
ne discutevano come se fosse un letto nuovo da piazzare dentro casa,
mandavano a memoria racconti e poemi. Fuori dalle misere stanze, in
trincea o ai lavori forzati, intere pagine potevano diventare una patria
portatile. Morivano per la letteratura, qualsiasi destino era un fatto
sufficientemente drammatico, persino l’esilio poteva diventare «la
notizia più tragica dopo la morte di Anna Karenina» (Dovlatov). Hanno
masticato la lingua della rivoluzione, quella del regime e della
propaganda, del dissenso e del disgelo, della persecuzione e della
diaspora, hanno oscillato tra emarginazione e compromesso, ma non hanno
mai smesso di credere che esistesse solo una lingua a disposizione della
letteratura, quella russa.
«I russi, i russi, gli americani», cantava Lucio Dalla. Sugli americani
spesso si dice che l’importante nel romanzo sia fallire, quasi un dovere
altrimenti non vale l’impresa. Si cita una frase di Faulkner con
leggerezza, come se fallimento non fosse una parola brutale e tremenda.
Si dimentica di quanti fallimenti veri e non solo stilistici sia
tappezzata la Terra Promessa e quanti pionieri si siano sacrificati
sulla frontiera, strappando con i denti la terra al caos, spezzandosi il
cuore pur di addomesticare la vita selvaggia. Nessuno di loro ha mai
avuto tempo per l’epica dolciastra dell’uno su mille ce la fa, la
tenerezza del successo giusto e meritato è stata ricostruita dopo.
Tutti i russi, ognuno a modo suo, sono stati dei pionieri, ma il
fallimento per molti è stato più pragmaticamente che i loro manoscritti
sono morti nei cassetti della Rivoluzione e dell’Unione Sovietica (che è
durata più di qualsiasi saga di Guerre stellari), oppure sono stati
distrutti dalla polizia e dal KGB. Per cui ci sono libri invisibili che
sono rimasti tali, e altri diventati microfilm e fogli clandestini
usciti in riviste di comunità in esilio. La fuga di cervelli è stata per
molti una fuga per vivere, ma nessuno è fuggito via dai suoi libri. Per
questo ogni scrittore russo è un caso vero e proprio.
Qualcuno tra i lettori li ha presi ancor più seriamente i russi. C’è
stata in Italia per molto tempo la corsa al gusto «demoniaco, abissale,
angosciato» dell’eredità dostoevskiana, da cui Silvio D’Arzo già
sessant’anni fa metteva in guardia. C’è stata poi l’attesa engagée degli
epigoni dissidenti e apocalittici alla Solgenitsin, pure il KGB li
aspettava al varco sperando nel frutto proibito da stanare, fosse pure
un graffito dei gabinetti della Stazione Kurskij (come ironizzava lo
scrittore Erofeev). Poi finita l’Urss è arrivata l’ora del personaggio
da sbornia, del macchiettismo alcolico, il pazzoide inaffidabile, l’agit
prop, il cane sciolto senza più neanche il sole ingannatore. Un
algoritmo volutamente impreciso che molti scambiano per la versione
rossa di un’altra raccolta indistinta fatta da Miller, Kerouac,
Burroughs, Bukowski e Hunter Thompson. Mentre la tragicità dei russi e
il loro «incondizionato denudamento e resa totale di se stessi» ricorda
molto di più gli oscuri Céline e Genet.
Comunque sia oggi sugli scaffali italiani i libri di narrativa russa che
vendono sono pochi, noti e soprattutto scolastici, quindi legati a
mondi completamente distanti da oggi. Insomma non c’è gusto a essere
russi in Italia. Sembra passato un secolo dalla Guida alla formazione di
una biblioteca pubblica e privata di Enaudi (981) quando i russi da
leggere erano 100. Il solito Dostoevskij vende complessivamente meno di
25mila copie l’anno, Tolstoj meno di venti, Bulgakov circa diecimila,
Pasternak non arriva a 5mila. Grossman è nuovo in chart, Puskin,
Turgenev, Cechov, Gogol guidano la truppa degli scomparsi. Per non
parlare dei moderni, i grandi moderni Dovlatov, Erofeev (entrambi morti
nell’estate del 1990) e Limonov neanche loro salgono in classifica. La
cosa sarebbe dispiaciuta molto a Mauro Martini lo studioso e accanito
lettore di cose russe che tra i primi scommise sul valore dei tre
scrittori (peccato che nessuno lo ricordi mai). Anche Adelphi prova la
carta del gioiello raffinato con la riedizioni di Pietroburgo di Andrej
Belyj, «un prodigio architettonico issato su vacillanti paludi» lo
definì il suo traduttore e curatore, Angelo Maria Ripellino. Quale
scrittore russo non si specchierebbe nella definizione?
Di Limonov grazie a Carrère sappiamo tutto e niente, ma i suoi libri si
trovano spaiati tra editori falliti, fuori catalogo e di difficile
reperimento. Dovlatov a lungo corteggiato da Einaudi resiste nel
catalogo Sellerio che l’ha stampato quasi tutto. Da ultimo è tornato in
libreria pure Venedikt Erofeev solo che lui è autore di un libro unico,
quello della vita, di cui non si riesce ad avere ancora un’edizione
stabile. Quella di Quodlibet è infatti la quarta traduzione italiana, un
record per un un libro con neanche quarant’anni di vita. S’intitola Mosca-Petuski, ma pure il titolo è ballerino, infatti il testo è più
conosciuto con il feltrinelliano Mosca sulla vodka. L’ultima ristampa
era stata di Fanucci a cura di Mario Caramitti, ora tocca alla
traduzione dello scrittore Paolo Nori rilanciare il celebre poema
ferroviario circolato a lungo dal 1969 al 1973 in clandestinità su fogli
copiati a mano e dattiloscritti, prima di trovare una sommaria edizione
in una rivista israeliana.
A differenza di Limonov e Dovlatov, Erofeev è stato profeta
esclusivamente in patria e come da copione votato al martirio. Ha avuto
una vita leggendaria perché avvolta in una nebulosa molto povera. Ha
prodotto un solo libro diventando una cometa della letteratura
nazionale. Anche per lui la solita vocazione russa, la venerazione per
la letteratura, “scrivo quindi sono”. Sul fuoco della scrittura ha
gettato molto alcol ma senza mai chiedere il premio di consolazione
all’ennesima bottiglia svuotata. Per qualche sprovveduto Erofeev può
passare per un simpatico alcolista in preda a deliri. Quando invece
l’alcol gli è costato caro persino con quei paradossi col sale sulla
ferita, come quando Erofeev fu tra i pochi scrittori ripubblicati dalla
glasnost, «ma in versione ridotta in 4 fascicoli della rivista Sobrietà e
cultura – raccontava proprio Martini – spacciato come un contributo
fondamentale alla campagna antialcolica promossa da Gorbacev». Quella
stessa Russia gli negò pure il visto per andare in Francia a farsi
operare per un tumore alla gola. Negli ultimi tempi il grande visionario
parlava grazie a un apparecchio. Uno scherzo fatale per l’alcolista,
tremendissimo per lo scrittore.
Venendo al libro Mosca-Petuski è un monologo dolente di un romantico
salito sul treno che lo porterà dall’amata. Il tragitto dalla capitale a
una sconosciuta stazione di provincia diventa il resoconto carnevalesco
di una sbornia colossale, quella dello scrittore sarà una corsa gremita
di diavoli, illegalità, eresie e diserzioni di vario genere. Erofeev
mescola il poema tragico con la satira feroce, i gerghi ufficiali con la
sfrontata citazione letteraria, attinge ai mistici, ai contemporanei,
ai padri fondatori, ci ficca dentro l’intramontabile messianesimo russo,
il misticismo, l’inutililità del marxismo burocratico e le speranze
offerte dal capitalismo.
Pietro Zveteremich che per primo lo tradusse in Italia scrisse: «In un
paese in cui per tradizione la letteratura è sempre stata presa sul
serio ed essa stessa si prende sul serio, compresa quella di
contestazione, al punto che questa serietà spesso è inerte e semplice
grigiore, ecco un guitto che aveva il coraggio di presentarsi nelle sue
vesti di guitto, con il suo linguaggio di guitto e i suoi lazzi. E non
soltanto: ecco questo guitto mettere in piedi una recita così piena di
verve, di genialità e di disperazione da far sì che dietro i modi della
farsa la sua sostanza sia invece la tragedia e vi sia qui una serietà di
fondo che pochi autori di intenzioni serie arrivano a toccare». Erano
russi, facevano sul serio.