Recensioni / Malerba, epica dello sbalordimento

La ristampa del romanzo Il pataffio ripropone un medioevo caratterizzato dal grottesco e dalla follia

 

Al culmine delle innovazioni proposte dalle avanguardie sulle destinazioni del genere romanzo, l’esordio di Luigi Malerba, con La scoperta dell’alfabeto (‘90),rappresenta senza esitazioni un programma di linea poetica che prende le distanze dai piani del neorealismo attraverso soluzioni inconsuete, come il ricorso alla letteratura western o al filone pittoresco di certa filmografia, il gioco continuo dello sgretolamento della prevedibilità logica dei temi, il recupero del genere giullaresco e maccheronico e un linguaggio destrutturato, privato delle sue più percepibili facoltà comunicative e convenzionali e fatto vibrare da elettrizzanti vene corrosive (con irruzioni del comico soprattutto nelle partiture dei dialoghi). Tocca alla forza propulsiva dell’ambiguità, attuata attraverso ribaltamenti strutturali dell’impianto narrativo e a inedite, felici modulazioni di formule polemiche, il compito di minare, in pagine lucidissime, la roccaforte di falsi miti della cultura e della Storia, delle prassi gerarchiche e della burocrazia .E così, un ventaglio di tecniche deformanti, tese ad aggredire i territori di consolidate informazioni e abitudini ,investe la produzione successiva che, tra microsequenze e soluzioni espanse all`insegna dellka parodia, va da Il serpente a Salto mortale, da Il protagonista a Le rose imperiali, da Le parole abbandonate a Il pataffio (‘78), che ora viene meritoriamente ristampato da Quodlibet. Con questa operazione è riproposto all’attenzione dei lettori un romanzo di straordinaria potenza creativa e storica, in cui sotto la superficie del divertissement si nasconde un pensoso e immaliconito intreccio di verità e di denuncia di ataviche consuetudini, di disordini e di ingiustizie sociali. Nell’ambito chiaroscurale di una cornice favolistica e puntellata su un Medioevo emblematico, si torna a celebrare un’epica dello sbalordimento e dell`incertezza, del sopruso e della violenza, con connotazioni grottesche e giocose e apici di virulenza e follia. Ponendo in campo temi, come quello della fame, simbolo dell’avidità del potere, Malerba demistifica il potere stesso prigioniero dei suoi sistemi di sopraffazione degli umili, ed esposto a ventate di ribellione dalle quali il personaggio centrale del romanzo, il Marconte, subirà pure tragiche conseguenze: Il feudatario, infatti, assediato nel suo castello dai "villani," guidati dal "traditore" Migone, "in prossimità della fine per fame e languore, disperazione e tradimento", si impicca insieme con il curiale Belcapo, sotto un cielo "nuvoloso". La pressione ideologica qui, diversamente da quanto messo in atto nelle opere precedenti, inietta con maggiore intensità un violento fuoco nelle varie situazioni, visualizzate nel contesto di un piccolo universo medievale ben definito e non semplicemente investito da un ribellismo contestatario. Tale posizione ideologica dello scrittore ha il corrispettivo oggettivo nella compagine strutturale del romanzo espressamente scandito a vari livelli, in rapporto ai diversi personaggi. Una rappresentazione multipla, a più spessori, con vorticosi tagli e rilanci e inserimenti di fiere canzoni, abile produzione sperimentale (citiamo solo il suggestivo e rivoluzionario esempio di Avventure) che corre fino all’anno della scomparsa dello scrittore. Sono, infatti, del 2008, le due raccolte di scritti che di recente Quodlibet ha pubblicato con il titolo di Consigli, in cui, accanto ai brillanti apologhi tesi a scompaginare l’"ideologia del superfluo", compaiono vivacissime e sorprendenti "biografie immaginarie".