Recensioni / Malerba pop e il vernacolo

Pubblicato nel ‘78, viene ora ristampato Il pataffio, libro dello scrittore parmense che rievoca il tono farsesco del Decamerone ed è ispirato a suo modo all’Armata Brancaleone di Mario Monicelli. La storia del marconte Berlocchio e del castello di Tripalle fa da contraltare al periodo degli anni di piombo carico di ideologie in cui uscì il testo. La forza dissacrante del dialetto, il barocco linguistico

 

Il romanzo

Immaginate l’Armata Brancaleone di Monicelli, trasferita però sulla pagina, e riscritta dal Gadda più scatenato, goliardico e plurilinguista! Avrete un’immagine abbastanza fedele di questo singolarissimo romanzo di Luigi Malerba, uscito nel 1978 e da allora irreperibile, ora meritoriamente ristampato da Quodlibet: Il pataffio. Il film di Monicelli era del 1966 ma a sua volta si dichiarò debitore, – tematicamente e linguisticamente – nei confronti di un film sfortunato dello stesso Malerba, Donne e soldati, del 1955, che rappresentava l’assedio a un castello e uno scambio finale di cibo contro donne. Nel Pataffio si narra del marconte Berlocchio che avendo sposato Bernarda, figlia dilettissima del re di Montecacchione, ne riceve in dote il castello di Tripalle. Alla testa di una sgangherata "soldateria" si mette in cammino per il feudo, attraverso mille peripezie, tutti «stralamentandosi e biastemmiando», finché arrivando a Tripalle scopre che è un contado poverissimo e desolato.

 

Gusto

Qui il gusto barocco per il catalogo verbale, che ci restituisce il groviglio non più ordinabile del mondo, ha un effetto comico esilarante.

Il romanzo esce per la prima volta alla fine degli anni ‘70, alla fine della stagione cinematografica dei tanti Decameroni trash che seguirono quello di Pasolini, e sembra quasi rievocarne il tono farsesco, però attraverso una finissima operazione linguistica, che inventa un gergo ibridando latino maccheronico, dialetto dell’Italia centrale e volgare medievale. Nell’universo malerbiano le uniche spinte del comportamento umano sono il sesso e il cibo.

Il corpo, e i suoi umori intrattabili, sembra riprendersi una beffarda rivincita contro qualsiasi sovrastruttura ideale e morale. Malerba qui si fa interamente pop e raggiunge forse il punto di massima prossimità della cultura all’anticultura e al vernacolo. Si pensi a certe grevi battutacce, alla divertita, quasi surreale volgarità di alcune scene. Ad esempio l’accoppiamento in tenda tra i due armigeri capintesta Ulfredo e Manfredo, che «si chiamano con ansimo di voce e di corpo», o quello tra Marconte e la somara, o a Baldassarre che vende la moje al mercato, e ancora allo scambio di insulti tra assediati e assedianti ("Cagasotto! Budelloni! Panciaculi! Merdaccioli! Pipparoli!...»). Torniamo al periodo in cui il romanzo uscì, a quegli anni di piombo gravati dal peso insostenibile – e cruento – delle ideologie. Le pagine del Pataffio sembrano contenere anche una protesta contro tutto questo. Ci appaiono indiscutibilmente "contemporanee" proprio in quanto inattuali, se davvero, come ha osservato il filosofo Agamben, è contemporaneo solo chi sa distaccarsi dal presente, e giudicarlo. In un decennio letterariamente un po’ asfittico, a parte le grandi eccezioni della Storia della Morante, di Corporale di Volponi e dei Sillabari di Parise, Malerba si inventò questo sberleffo lessicale, e anche se alla lunga l’impasto linguistico può divenire un po’ stucchevole, ci ricorda almeno la vocazione ludica e anarchica della letteratura.

In una festa del paese organizzata dal marconte, la gente si ammucchia attorno a dei banchi dove si reclamizzano prodotti alimentari che in realtà non ci sono! «Io vendo polenta salame pagnotte salsicce braciole focacce presciutti zucche pizze porchetta...». Ora che succede? Quelli che stanno intorno si riempiono la bocca ripetendo e masticando le stesse parole e quasi gli sembra «a forza di dire polenta salame pagnotte salsicce...» – che la pancia si riempie poco alla volta e addirittura di sentire gli odori, finché qualcuno arriva a fare dei gran rutti per digerire questa finta spanzata, tutta verbale.

In questa scena potrebbe racchiudersi la poetica di Malerba: la parola con i suoi incantesimi inventa la realtà, e da sola è perfino capace di nutrirci.

 

Quel lessico tra latino maccheronico e romanesco

 

Quando la sgangherata armata del marconte Berlocchio arriva a Tripalle, Frate Capuccio sotto le arcate sacre della chiesa fa una predica – sputacchiando – ai villani e alla fine ne riceve in cambio una sassata in pieno occhio. È una pagina esilarante e volutamente greve, che bene esemplifica la straordinaria invenzione linguistica di Malerba, tra lingua di Brancaleone, deformazione del latino maccheronico ed ecclesiastico, dialetto ciociaro-romanesco e stravolgimenti sintattico-morfologici.

 

Corpo

Ne riproduciamo una parte: "Omnia peccatum est. Tutto è peccato! Peccatum est magnare quando homo affamatus est. Peccatum est dormire quandum insomnolitus est. Peccatum est se grattare, lavare au pettinare capillos. Peccatum est ruttare. Peccatum est scoreggiare. Peccatum est guardare e toccare le femmine. Peccatum est fottere cum piacere. Omnia godimenta peccatum est!..." E ancora: "Tutto il corpo è peccato dall’ombeliculo in su, ma sopra tutto dall’ombeliculo in giù! Ogni buco sia davante che de retro peccatum est. Peccatum est biastumare, acoltellare, sputare, ingiuriare, strupare, adulterare, incullare, furare, umbriacare, abboffare, derobbare balestrare, receptare, iocoare, usurare..."