Recensioni / Handke diventa Wenders

Dopo un giro alquanto avventuroso, il biglietto che gli avevo spedito quest’inverno da Cadice era arrivato. Era un acquerello formato cartolina che rappresentava la Puerta de Tierra: acquistato dal libraio antiquario di Plaza de Mina, la stessa in cui nacque Manuel de Falla, imbustato e spedito all’indirizzo di Peter Handke a Chaville. La lettera era dirottata verso altri lidi e consegnata mesi dopo. Conteneva quella che per me, all’inizio di febbraio, era ancora una notizia fresca, da comunicare con entusiasmo, e l’annuncio di un imminente cimento, una nuova sfida, un’altra avventura da traduttrice alle prese coni suoi scritti :« Tradurrò I bei giorni di Aranjuez! », gli scrivevo rimandandogli dalla Spagna quel suo titolo che evocava una località spagnola. La risposta, stavolta, non era arrivata con la posta, non c’era tempo. Così Peter Handke, cocciuto analfabeta informatico, refrattario all’uso del computer, scrittore con taccuino e matita, estimatore delle lettere all’antica, si era appoggiato alla posta elettronica della moglie, che vive a Parigi. Era già metà maggio quando arrivò l’email di Sophie Semin, l’attrice francese con cui Handke è sposato dal 1990, madre di Léocadie, figlia minore dello scrittore, la donna che ha accettato le smanie di solitudine di un autore da sempre diviso tra la ricerca dell’amore e la sua inclinazione da eremita. In perfetto tedesco mi scriveva: «Peter Handke ha pensato a te. Si tratta dei sottotitoli del film Les Beaux Jours d’Aranjuez che Wim Wenders ha tratto dalla pièce di Peter e che sarà presentato a settembre in concorso al festival di Venezia. Peter ha scritto il testo in francese e proprio in questa lingua — la mia! — recitiamo nel film. Il produttore, Paulo Branco, vuole una buona traduzione per i sottotitoli. Peter sa che stai lavorando sulla versione tedesca del libro. Ci auguriamo che con il francese non ci siano problemi…». Non ce ne sono stati. Che rete sontuosa e intricata di lingue e nazionalità per ricucire un legame — quello tra Peter Handke e Wim Wenders — stretto da quasi cinquant’anni. Un autore austriaco, un regista tedesco, un produttore portoghese, un’attrice francese, una città spagnola, un’edizione e una mostra del cinema italiane. Dunque il dramma — che a rigore è «un dialogo estivo» — Die schönen Tage von Aranjuez, uscito da Suhrkamp nel 2012 e, pochi mesi dopo, dall’editore parigino Le bruit du temps, già presentato alla stampa internazionale come The Beautiful Days of Aranjuez, tradotto in italiano per Quodlibet come I bei giorni di Aranjuez (data di uscita: 1° settembre) sarà in concorso a Venezia come Les Beaux Jours d’Aranjuez, tratto dalla prima versione eccezionalmente scritta in francese «Per Sophie» — avverte la dedica del libro — la quale ne possiede privatamente il manoscritto originale, recitato dalla stessa Sophie nel ruolo di protagonista, e realizzato con la regia di Wim Wenders. «Ancora insieme» è la formula che potrebbe riassumere l’intero gioco di relazioni allacciate in questa impresa. Insieme Peter e Sophie anzitutto. Ha infatti tutto il sapore di un dono amoroso questo scritto enigmatico ma anche spietatamente sincero, al limite della confessione, conturbante, sempre sul punto di diventare scabroso ma anche delicato e pudico, che mette apertamente a confronto un uomo e una donna, anzi «l’uomo» e «la donna», per farli parlare dei loro amori… Non del loro amore: i due non sono amanti, né tra loro vi è alcuna traccia di un rituale di corteggiamento o di seduzione. Sono complici, amici, a tratti avversari, ma solo per una partita. Si attengono con lealtà alle regole del gioco delle domande e rispondono con fiducia, con profonda, sconcertante confidenza. Ritornano, soprattutto lei, a dettagli della propria vita erotica che difficilmente si rivelerebbero a un marito. Rivanno, è il caso di lui, a certi ricordi di viaggio, a certe camminate solitarie, all’esplorazione delle selve attorno alla reggia di Aranjuez, circonfusa tra l’altro, ma solo sulla carta, da un’aura letteraria. Il titolo, va detto, evoca infatti un verso del Don Carlos di Schiller che recitato per intero suona: «I bei giorni di Aranjuez sono giunti alla fine». Ma il legame con la tragedia di Schiller è assolutamente estemporaneo, la malinconia del verso originale vena appena, e solo nel finale, lo scritto di Handke che invece ad Aranjuez, rivelano i suoi diari, c’è stato per davvero, attratto, come spesso gli succede e come accade anche al suo protagonista, dal suono esotico di quel nome. All’insegna del nome regale della città spagnola che nel Settecento fu residenza dei sovrani di Castiglia, e a smentita del malinconico verso di Schiller — «quei bei giorni sono finiti…» — quest’opera segna poi un altro grande ritorno, una nuova riunione, il ritrovamento di due amici di vecchia data che si sono incontrati per la prima volta mezzo secolo fa e che da allora hanno visto i loro percorsi intersecarsi continuamente. «Ancora insieme» riecco Handke e Wenders. Peter e Wim. Insieme per un altro viaggio, un’altra festa, un altro film. Wenders ancora una volta dopo tanto tempo ha raccolto le suggestioni letterarie dell’amico scrittore. Ha raccolto anche la sfida di rappresentare in un film un testo così introspettivo e poetico, costruito tutto sulla parola — di qui l’attenzione scrupolosa ai sottotitoli — privo di qualsiasi azione, sradicato persino da qualsiasi luogo: Aranjuez è solo un ricordo, un sogno, un desiderio, la recita si svolge in un giardino, ma stando alle indicazioni di scena di Handke perfino gli alberi che circondano i due eroi sono tutti da immaginare… Alla musica degli alberi, il suono di sottofondo che accompagna «i giorni e le opere» di Handke, Wenders ha aggiunto la sua musica. Lou Reed, Nick Cave — che nel film, al pianoforte, ha un breve cammeo — e il Gus Black dello strepitoso brano finale The World Is On Fire and I love, I love you… Ma anche su queste scelte Wenders è in linea con l’amico Peter. «Che cosa faremmo senza le canzoni?», scrive Handke nel suo ultimo diario mentre ascolta Owner of a Lonely Heart e aggiunge «in questo caso il “noi” è al posto giusto». E poi, sempre per sottolineare la solitudine del cuore, annota «“I will be what I am,/ a solitary man”, cantava e canta Johnny Cash». Oppure «“Why can’t we love like we did before?” (Bob Dylan, Forgetful Heart) ». Già, la parola dice molto, specie in questo testo di Handke in cui chi parla si mette così a nudo. Ma la musica punta alle emozioni, come e più delle immagini, e si rivela un ingrediente imprescindibile in quest’opera che, almeno nella sua versione cinematografica, risulta composta a più voci, in diverse lingue, con tanti linguaggi artistici. Per Handke e Wenders è così fin dagli inizi. Con un cortometraggio musicale che non è mai stato proiettato da nessuna parte (ma che si può vedere su YouTube) iniziarono un po’ per gioco a fare cinema assieme. Era un filmato di 13 minuti girato nel 1969 viaggiando in macchina per città tedesche, concepito on the road, nel miglior stile della Beat generation americana, e dedicato a Drei amerikanische LP (è il titolo originale da cercare online), a tre album di Van Morrison, Harvey Mandel e dei Creedence Clearwater Revival. I dialoghi tra i due erano di Handke, Wenders aveva procurato la cinepresa, eseguito il montaggio e curato la regia. Allora Handke aveva 26 anni e Wenders 23. Si erano incontrati per la prima volta tre anni prima: Handke era ai suoi esordi teatrali con il rivoluzionario Insulti al pubblico portato in scena nel ’66: Wenders, ancora studente, era tra il pubblico e volle assolutamente parlare con l’autore del dramma. Handke lo notò subito, nonostante stesse in un angolo, «irradiava una solitudine che scaldava il cuore», disse di lui. Si piacquero dall’inizio. Certe spiccate affinità, l’interesse per il mito americano approdato in Germania, la passione per la musica, l’attenzione sorvegliata e critica, metaletteraria, metacinematografica al linguaggio artistico, li portarono a collaborare. Alla menzione dei loro nomi, citati anche separatamente, tutti evocano Il cielo sopra Berlino. In quel caso Handke si limitò a collaborare alla sceneggiatura. «La storia è sua», sottolinea riferendosi a Wenders. «Io avevo scritto solo dei monologhi, delle litanie», mi aveva detto. Ma è innegabile che tanto della forza del film sta nel Canto dell’infanzia che ne ritma le sequenze, nei dialoghi tra i due angeli, nei monologhi origliati dai pensieri dei passanti berlinesi, tutti scritti da Handke. «Durante le riprese — rivelò Wenders al biografo di Handke — mi mandava, scritti a matita su fogli di carta messi in una busta, i testi di quei monologhi. Ci tappezzai il mio studio». Prima di quel capolavoro e di quel successo del 1987, Wenders aveva fatto altri due film basati su libri di Handke. Prima del calcio di rigore, girato nel ’71 un anno dopo l’uscita del romanzo, il cui protagonista riflette con una neutralità fedele allo stile di Handke l’atteggiamento schizoide, concedendo al limite una punta di suspense creata, ancora una volta, con la colonna sonora. E Falso movimento, tratto dal romanzo goethiano di Handke ispirato al Wilhelm Meister e redatto in forma di racconto solo successivamente alla sceneggiatura del film. Tra l’opera letteraria di Handke e il cinema di Wenders, o viceversa, ci sono però ulteriori punti di contatto. Vi è una certa somiglianza, seppure non una filiazione diretta, tra la Alice nelle città di Wenders e la Storia con bambina di Handke il quale, dopo la separazione dalla prima moglie, l’attrice austriaca Libgart Schwartz, crebbe da solo la figlia primogenita Amina e viaggiò a lungo con lei. Fu poi proprio Wenders, con la sua Road Movies Filmproduction, a produrre il film La donna mancina scritto e diretto da Handke nel ’78 (il romanzo, uno dei suoi più famosi, anche in questo caso è successivo alla sceneggiatura) come suo secondo lungometraggio da regista realizzato dopo Cronaca dei fatti correnti e prima di La malattia della morte tratto da un racconto di Margherite Duras e di L’assenza, forse il suo capolavoro cinematografico, presentato a Venezia nel ’92. Wenders poi avrebbe voluto trasporre in un film Lento ritorno a casa, il libro dell’82 che segna la svolta epica nella scrittura di Handke, ma in quel caso non riuscì raccogliere fondi sufficienti. Così per rimediare si buttò, per affetto nei confronti dell’amico, nella sua prima e unica esperienza teatrale, portando in scena al festival di Salisburgo Attraverso i villaggi, con solo quattro repliche. Dai primi anni Novanta è appunto L’assenza di Handke a caratterizzare il suo rapporto con il cinema. Per inciso, anche in quel film del ’92 recitava sua moglie Sophie Semin insieme a Bruno Ganz, comune amico di Wim e Peter, che oltre ad aver interpretato Il cielo sopra Berlino appare anche in La donna mancina. Da allora, e cioè dallo scoppio del conflitto nella ex Jugoslavia, l’opera di Handke ebbe altre priorità. Tra l’altro proprio la guerra nei Balcani segnò un’incrinatura tra i due amici: Wenders prese pubblicamente una posizione radicalmente opposta a quella filo-serba così contestata di Handke. Ma adesso i bei giorni di Aranjuez sono tornati. Ultimo dettaglio. Handke fin da giovanissimo è sempre stato un assiduo Kinogeher, un moviegoer, come è definito l’eroe del libro di Walker Percy che l’autore austriaco tradusse dall’americano: «Uno che va al cinema». Da ragazzo si comprava il biglietto d’ingresso con i proventi della vendita dei finferli. Da giovane autore negli anni Settanta scriveva al suo editore: «Nel pomeriggio di regola vago di cinema in cinema». E ancora adesso negli ultimi diari scrive: «Un vantaggio dell’andare al cinema: mi rendo invisibile, almeno per un po’». E invece in I bei giorni di Aranjuez Handke si vede. Nel film ha almeno tre alter ego: «l’uomo», lo scrittore, e lo stesso Wenders, senza che nessuno dei tre gli assomigli fino in fondo… Ma a un certo punto, cappellaccio da giardiniere, scarponi e scala a pioli a tracolla, compare per potare gli alberi del giardino. Non guarda la scena neanche da lontano. Piuttosto lo vediamo in lontananza.