Recensioni / E i papuani osservano i bianchi

Questo testo è tratto da Incontri coi selvaggi.

Fino agli inizi del Novecento in Nuova Guinea l’espansione coloniale si era limitata alle zone costiere. Per un errore di valutazione geografica, si credeva che l’interno fosse costituito da un unico massiccio impervio, ricoperto da giungle (così appare dalla costa) e disabitato. L’isola è invece attraversata da due catene montuose parallele, tra cui si estende un immenso altopiano solcato da valli verdeggianti, a quell’epoca abitate da un milione di agricoltori papuani disseminati in piccoli gruppi tra una valle e l’altra. Le guerre tribali avevano impedito gli spostamenti oltre l’enclave della propria Velile, per cui ogni gruppo era rimasto isolato dal resto del mondo, e completamente ignaro dell’uomo bianco.

Nel 1926 fu trovato dell’oro in un fiume di Edie Creek. Subito, dall’Australia, avventurieri di ogni risma accorsero in massa sull’isola.

Tra questi c’era un tagliaboschi che si chiamava David Leahy, il primo a organizzare una spedizione all’interno.

La prima notte, dal loro accampamento, Leahy e compagni videro in lontananza tanti punti luminosi sparsi nelle valli, e capirono con un po’ di preoccupazione che l’interno dell’isola non era disabitato come si credeva. L’indomani, mentre scendevano verso valle, sentirono uno strano gemito modulato nell’aria rarefatta di montagna: erano gli abitanti dell’altopiano che con quella specie di canto si stavano trasmettendo da un capo all’altro la clamorosa notizia della loro apparizione.

Nel suo diario Leahy scrive che fu quasi un sollievo veder apparire il primo gruppo di papuani. Gli uomini stavano davanti, le donne dietro; tutti avevano una faccia sbalordita, portavano solo un perizoma e tenevano un gambo di canna da zucchero in mano. Uno dei portatori della spedizione rassicurò Leahy, la presenza delle donne significava che non avevano intenzioni bellicose. Un vecchio gli si avvicinò timoroso, e quando gli fu appresso prese a tastarlo, come per vedere se era reale. Poi si mise in ginocchio e cominciò a sfregargli le gambe con le mani, forse per vedere se erano dipinte; quindi gliele abbracciò e prese a strofinare la testa crespa sulle gambe. A quel punto tutti presero coraggio, scoppiò un gran viavai, un brulichio da formicaio impazzito, in cui tutti indicavano i bianchi e i loro misteriosi oggetti urlando in una lingua incomprensibile.

Credendosi gli unici abitanti della terra, i papuani non si spiegavano chi fossero gli stranieri, che divennero quindi per loro un oggetto di studio. Erano gli spiriti dei morti tornati dal mondo invisibile? O gli spiriti degli esseri divini che avevano preso sembianze umane per tornare in terra?

Durante il giorno, Leahy e gli altri marciavano spediti verso i propri obiettivi, in modo da sfruttare Perfetto sorpresa. Quando però, all’imbrunire, erano costretti ad accamparsi, centinaia di papuani arrivavano dai dintorni; e man mano che passavano le ore, la notizia del loro arrivo si diffondeva, per cui continuava a arrivare gente, e alla fine potevano essere anche in migliaia. Poi stavano ore in silenzio a osservare ogni gesto dei membri della spedizione; gli spettatori assiepati in file sovrapposte, come in un’arena. Leahy scrive nel suo diario che in quei momenti aveva l’impressione di essere come il bestiame in una fiera agricola.

I papuani erano dunque convinti che i nuovi venuti fossero degli spiriti, ma ogni tribù declinava tale ipotesi a modo suo. Nella valle di Goroka, ad esempio, i papuani pensavano che bianchi fossero divinità reincarnate; e i portatori indigeni della costa, così simili a loro, gli spiriti dei parenti morti ritornati in terra. Un papuano di nome Gopia era sicuro di aver riconosciuto suo cugino; «ma quale cugino?» chiedevano gli altri, «mio cugino Ululine!» rispondeva Gopia. Ulaline era morto qualche anno prima durante uno scontro con un’altra tribù (i papuani degli altopiani erano sempre alle prese con guerre tribali); e gli avevano amputato un dito della mano per punirlo di aver fatto troppi figli. Anche a quel portatore mancava un dito della mano destra; «Guardate!» diceva Gopia, «Lo stesso modo di ridere! Di parlare! La stessa espressione!». Quando riuscì ad avvicinarlo gridò «Cugino!», e lo voleva a tutti i costi abbracciare; il portatore aggrottava le ciglia e non capiva, anche perché non parlava a sua lingua; ma lui insisteva per abbracciarlo. Altri, non trovando somiglianze con i propri parenti, pensavano che fossero quelli che distoglievano lo sguardo quando li guardavano; pensavano che facessero così per non essere riconosciuti dai loro parenti vivi, e così passare inosservati; il che avrebbe significato una loro cattiva disposizione nei confronti dei vivi. Perciò c’erano dei papuani che si erano fissati con uno dei portatori e lo scrutavano per vedere se distoglieva lo sguardo. Quelli che riconoscevano i propri parenti sarebbero voluti entrare nelPaccampamento per abbracciarli, ma c’era un particolare che faceva da deterrente: dall’accampamento veniva un odore ripugnante a causa dei bianchi, e alcuni pensavano che quell’odore avrebbe potuto ucciderli; quindi, mentre li osservavano, si tappavano il naso con le foglie di una speciale pianta che cresce vicino ai cetrioli. Del resto, questa cosa dell’odore, era reciproca; «gli aborigeni puzzano terribilmente», scrive Leahy nel suo diario.

In quanto divinità reincarnate, i bianchi erano osservati con maggior preoccupazione e discrezione (dato che molte divinità avevano reputazione di essere feroci e mal disposte nei confronti degli umani).

«Non saranno venuti in terra per ucciderci?», si chiedevano. E studiavano con particolare attenzione le loro attività corporali. Mangiavano, bevevano, dormivano e defecavano come loro? Divenne capitale la questione degli escrementi. Si chiedevano, nel caso in cui anche loro defecassero, come facessero con quegli strani indumenti addosso. Da dove uscivano gli escrementi? E come facevano gli indumenti a essere sempre così puliti? Ogni volta che la spedizione si accampava, i portatori scavavano le latrine in un angolo dell’accampamento, che poi venivano nascoste con un paravento. I papuani avevano fiutato che dietro i paraventi succedeva qualcosa d’importante. Un giorno uno di loro riuscì ad andare a spiarli di nascosto; quando tornò annunciò che gli «uomini venuti dal cielo» facevano i loro bisogni dietro i paraventi tirandosi giù i pantaloni.

I papuani a questo punto morivano dalla curiosità di sapere come erano gli escrementi dei bianchi. Finalmente, quando la spedizione tolse le tende e partì, fu mandata una delegazione di anziani a vedere come stavano le cose. Di ritorno dalle latrine questi annunciarono che, testuali parole, «la pelle dei bianchi sarà anche diversa, ma la loro merda puzza come la nostra». Allora tutti, anche le donne e i bambini, vollero andare a verificare personalmente la cosa; si formò una processione che durò più giorni, con gente che veniva anche da molto lontano.