Recensioni / Grammatica dell’uso in versione critica

Non è facile scrivere oggi un libro su Wittgenstein: la letteratura critica su questo filosofo è ormai così soverchiantemente vasta e varia da produrre, in maniera quasi inevitabile, un qualche senso sazietà. Tra l’altro, com’è stato di recente notato, il rischio è che questa immensa letteratura nasconda o ci allontani sempre di più proprio dai testi di Wittgenstein sul quale si legge molto ma del quale si legge poco. Inoltre, è la filosofia stessa di Wittgenstein a rendere problematico scriverne, se questo significa enuclearne le tesi portanti, metterne in evidenza le argomentazioni e discuterne i punti di forza e i lati di debolezza.
In effetti, sembra che per trattare fedelmente la filosofia di Wittgenstein si dovrebbe riprendere e continuare questo lavoro magari applicandosi a temi e ambiti che il filosofo viennese non aveva preso in considerazione o ai quali non aveva, a quel tempo, accesso. Nel suo lavoro, Marco Mazzeo ha accolto questa sfida scrivendo un libro Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso (Quodlibet, pp. 183, € 19,00) che a voler usare, e al medesimo tempo scardinare, la coppia interpretazione/uso a suo tempo introdotta da Umberto Eco, si muove esattamente tra questi due poli. È anche perciò che in queste pagine non c’è traccia di quella sottomissione a Wittgenstein che spesso caratterizza libri e saggi sull’autore delle Ricerche filosofiche.

Approdi politici
Mazzeo assume dunque come via d’accesso alla filosofia di Wittgenstein la nozione di uso. «Che cos’è l’uso?» è la domanda che sta all’inizio del libro; ma la sua motivazione non è esclusivamente filosofica. «Di recente – osserva Mazzeo – il tema dell’uso è al centro di un dibattito acceso, di grande rilievo filosofico ed etico-politico»; e questo accade innanzitutto perché «la crisi odierna delle forme di vita, legata a sconvolgimenti economici e profonde trasformazioni istituzionali, spinge a comprendere cosa si possa fare della propria esistenza».
Nasce da qui, e non da ragioni meramente interne alla tradizione critico-filosofica, il bisogno di ricorrere a Wittgenstein, ossia a quel filosofo che «nel Novecento si è più occupato della nozione di uso». L’obiettivo è quello di esplorare, con Wittgenstein, quella che Mazzeo chiama la «grammatica dell’uso»; ma anche di esplorarla in tensione con Wittgenstein perché occorre essere consapevoli che egli «offre alcune risposte ma anche un gran numero di problemi».
Come Mazzeo ribadisce, il peggior servizio che si può rendere a Wittgenstein è quello di «farne un Talmud moderno da cui trarre ispirazione per tante belle occasioni e ogni possibile tema».
Nel suo tentativo di elaborare, senza semplificazione e riduzionismi, una grammatica dell’uso, Mazzeo assume come guida i due attori che appaiono per primi nelle Ricerche filosofiche: «il bambino che apprende, l’operaio che lavora». Attorno a queste due figure o attori si dipana tutto il lavoro dell’autore, che con grande ricchezza di annotazioni e analisi, mostra come Wittgenstein se ne serva per mettere in luce le varie e complesse dimensioni dell’uso (per esempio, l’uso può essere automatico, ma esso apre anche al possibile), e come mediante queste dimensioni si possano anche rilevare limiti e vicoli ciechi del filosofare di Wittgenstein.

La dimensione storica
In particolare, contro Wittgenstein Mazzeo rivendica la dimensione storica dell’uso e prende le distanze da ogni subordinazione dell’uso alla celebrazione del linguaggio quotidiano. Sarebbe utile discutere alcuni dei capitoli più interessanti del libro; per esempio, quello dedicato in gran parte a Della certezza o quello che riguarda il rapporto tra uso matematico e azione innovativa, ma (in mancanza di spazio) resta l’invito a leggere un libro che, nel panorama della letteratura su Wittgenstein, va segnalato per la originalità e la «freschezza» del modo in cui ne avvicina la filosofia.