Recensioni / Realtà di ricambio facendo esperimenti sulle strutture

Nella scrittura antirealistica di Luigi Malerba, al quale è dedicato un «Meridiano», le strutture riformulano di continuo i piani della narrazione, e il registro picaresco allenta le redini della cognizione mediante il comico

Il 1963 fu anno memorando: accanto alla Cognizione del dolore di Gadda apparvero Marcovaldo di Calvino, Lessico famigliare della Ginzburg e La tregua di Primo Levi, Diario minimo di Eco e Fratelli d’Italia di Arbasino, Rien va di Landolfi e Capriccio italiano di Sanguineti, Libera nos a Malo di Meneghello e La dura spina di Renzo Rosso: tutti rimasti negli annali, a non dir d’altro. Ma proprio non passò inosservato l’esordio di Luigi Malerba (1927-2008) con un titolo che, visto da oggi, può essere assunto quasi, simbolicamente, a programma suo e di quell’anno fatale. La scoperta dell’alfabeto, poi modificato variamente nel corso degli anni, era sì una vicenda di contadini come quelli di Sherwood Anderson (giusta l’identificazione di Paolo Mauri), ma era fin dalle prime righe soprattutto la messa in discussione dell’ordine consueto del discorso, andando alla radice: perché la A debba stare prima della B. Del ‘63, che fu anche l’anno del famoso Gruppo letterario, Malerba, che ne fu partecipe, ricorderà, schizzando un po’ il proprio autoritratto d’autore: «L’esperienza della Neoavanguardia mi ha dato soprattutto un forte senso della libertà e una disinvoltura sia nella scrittura che nei temi trattati. Una esperienza estrema, disorganica, avventurosa». L’ordine era messo in discussione da subito: l’incarico di dimostrare l’avvenuto scoppio lo presero i due libri seguenti, che erano poi, oltre che testimoni, lo scoppio stesso: nel 1966 arrivò il monologo di uno che parla solo di se stesso con se stesso, Il serpente; nel 1968 quello che è il titolo sigla di Malerba per come era fortemente sintomatico e perché era un libro di perfetto rovesciamento non solo della prospettiva naturalistica ma di ogni prospettiva romanzesca, Salto mortale. Che cosa pensare infatti di una narrazione nella quale tutti gli uccisi si chiamano Giuseppe e sugli omicidi indaga uno che si chiama – tanto per non sbagliare – Giuseppe detto Giuseppe? Per conseguenza, non è frantumato solo il personaggio, ma l’intera narrazione (non la possibilità di narrare).
Malerba con le parole (e con le strutture) ci ha giocato a lungo, almeno per la prima parte della sua storia di narratore, quella dei titoli ora citati, usciti in un arco breve di tempo, tutto –e giustamente – presente nel «Meridiano» che gli viene dedicato, a cura precisa di Giovanni Ronchini e con un eccellente saggio introduttivo di Walter Pedullà, che di Malerba è stato tra i critici più continui e sodali (Romanzi e racconti, Mondadori, pp. CXXXVI-1712, € 80,00); seguono Il pataffio, del 1978 e Testa d’argento, di dieci anni dopo; e infine Il fuoco greco (1990), Le pietre volanti (1992) e Fantasmi romani (2006) (da Quodlibet, intanto, ricompaiono altri singoli titoli, di un Malerba intonato su un’altra scala, quella di un novelliere antico però amante dei paradossi: ultimo Storiette e Storiette tascabili, 1977-1984, pp. 180, € 14,00).
Pedullà prende subito di petto la questione centrale, poi mutata di intenzioni e di forma, e diversamente declinata, ma pur sempre la questione per eccellenza in Malerba, ovvero l’antirealismo, che «assegna una funzione nuova a oggetti che sono o sono diventati naturali, e danno un’emozione intellettuale in cui ti riconosci diverso attraverso personaggi che sono dementi, mitomani o idioti, insomma i malati di mente che negli anni Sessanta la psichiatria alternativa ha rivalutato come i veri sapienti». Se ci si chiede, proprio sulla scia di questa osservazione, se, benché antirealistica, la scrittura di Malerba non miri comunque a un effetto di realtà – una realtà rovesciata e tragicamente carnevalesca la risposta arriva da una dichiarazione d’autore: «lavorare sulle grandi strutture sintattiche serve in primo luogo a inventare degli schemi di realtà di ricambio utilizzabili da chi voglia sottrarsi ai turbamenti dell’infinito»: c’è da aggiungere che quando si affaccia la parola «infinito», oltre che realtà e realtà di ricambio occorre forse presuppone una metafisica, o, in termini altri, un’ansia metafisica che parte dal mondo fisico nel tentativo estenuato di darne nuova formulazione e nuova cognizione. Insomma, sinteticamente, leggendo Malerba non si può che assistere, secondo il titolo dell’introduzione di Pedullà, che alle «metamorfosi di un narratore sperimentale» per il quale la sperimentazione avviene piuttosto che sulla scrittura – non si dice pacata ma comunque meno agitata – sulle strutture (e forse è qui da cogliere un’ultima, estrema fiducia nella pur evitata forma-romanzo). Ed è anche una sperimentazione del mondo, delle sue facce, si direbbe, mutevolmente ossessive.
Queste strutture contrapposte e interferenti sono segnate, soprattutto nella prima parte dell’opera di Malerba, da una grande mobilità: si rincorrono e non si trovano: riformulano continuamente la narrazione su piani diversi e danno conto dell’instabilità di cui sono fatte e su cui poggiano: che è l’instabilità del conoscere il mondo e del mondo stesso così come percepito. Però ciò non deve ingannare, perché alla loro maniera, benché diretti dal pensiero, i «romanzi» di Malerba sono sempre avventurosi e piuttosto picareschi: allentano le redini della cognizione delle cose in una corsa sfrenata verso il comico, si aprono sull’amarissimo rovescio del mondo, con un linguaggio, osservò subito Giuliano Gramigna dl cui pensiero è verbo e le cose non sono cose ma segni totemici».
Dal Pataffio in poi, Malerba ha spesso considerato che si può scrivere del passato, perfino imbastire un romanzo storico, ma infine è sempre del presente che si parla, proprio come nel Fuoco greco, fintamente ambientato in una Bisanzio storica (con una documentazione che sa di impostura) e invece piazza universale del mondo e di tutti i tempi: «ero dunque io in prima persona che facevo abusivamente il sogno di un personaggio storico», si legge in uno dei racconti di Testa d’argento (cosa che capiterà ancora in uno dei romanzi non accolti nel «Meridiano», forse per la sua abnorme estensione, Il pianeta azzurro). Il rapporto con la storia sarà infine solo uno strumento, nei libri finali, dove non si ride più, ma si considera l’attualità di nuovo come narrabile. Il 1963 è lontano, tanto da somigliare alla vicenda dell’Arte dei soffiatori di bolle della antica Cina di cui narra uno dei racconti di Le rose imperiali, ammiccante a quella letteratura, come scrive Pedullà: «invenzione, trionfo e morte precoce: sempre così i pionieri che si mettono in gruppo». Restano opere che, senza il gruppo, forse, lo stesso ci sarebbero state (alla maniera di Malerba, con un ritorno all’indietro, si può qui andare in capo all’articolo), e incontrarne qualcuna).