Recensioni / Ghizzardi, genio senza grammatica e anima padana

Quarant’anni fa Einaudi dava alle stampe Mi richordo anchora del pittore contadino Pietro Ghizzardi, definito dal critico letterario Angelo Guglielmi «analfabeta ma scrittore». L’opera, che l’anno seguente vincerà il Premio Viareggio Répaci, è un’autobiografia sui generis, scritta in un misto tra dialetto padano e lingua sgrammaticata.

Jacopo Canteri, autore del volume A scrivere ho davanti il mondo. Parole e immagini nell’opera di Pietro Ghizzardi (Glifo edizioni), spiega: «La critica accolse l’opera prima di Ghizzardi favorevolmente. Però, in secondo luogo, evitò di confrontarsi con la specificità della sua scrittura, limitandosi a inserirla in categorie precostituite». Ora, finalmente, dopo anni di irreperibilità, Mi richordo anchora torna nelle librerie grazie a Quodlibet (pagine 300, euro 16,00). Una nuova edizione giusta e doverosa. E a più di quarant’anni dalla pubblicazione e a trenta della morte (se ne andava il 7 dicembre 1986), rileggere le pagine di Ghizzardi provoca una forte emozione. Nel suo ininterrotto flusso, Ghizzardi “richorda” i primi anni di vita e l’urgenza di esprimersi. Il suo primo disegno è una Madonnina realizzata sulla parete sporca della stanza da letto con un pezzo di carbone. La madre lo rimprovera, la nonna lo capisce. E da quel momento il giovane Pietro non si ferma più. Dipinge sui muri dei cascinali e poi realizza personalissimi ritratti: Carolina Invernizio (celebre scrittrice di romanzi d’appendice), papa Pio XI, la maestra dell’oratorio. I suoi lavori li realizza su vecchi cartoni, mettendoli a terra e dipingendo carponi, prima tracciando una cornice nera e poi mischiando colori, realizzati con materiali organici e inorganici. Non abbandonerà mai questo modo di dipingere, anche quando, acquistata una, se pur minima, indipendenza economica, poté provare i colori industriali.

Sempre nei suoi scritti, Ghizzardi “richorda” la vita nomade dei suoi primi anni: i genitori contadini, come succedeva all’epoca, cambiavano spesso podere. Nel 1931 un nuovo spostamento a Boretto, nella bassa reggiana. Ma questa volta sarà definitivo. Qui, nel 1992, per volontà della pronipote Nives, è nata la Casa Museo, a cui ha fatto seguito, nel 2012, l’Associazione culturale e centro documentale “Pietro Ghizzardi”. Giulia Morelli, curatrice della Casa Museo, ci spiega: «All’interno della Triennale di Milano si tiene in questi giorni un progetto espositivo e performativo prodotto dal Teatro dell’Arte, basato sulla riduzione curata da me e dall’attore Silvio Castiglioni. Parallelamente presso lo Spazio Arte Prospettiva di Boretto continua la mostra Mi faceva suo richordo tutto. Trenta anni senza Ghizzardi. Trenta anni di Ghizzardi. Questi progetti vanno nella direzione che perseguiamo da anni: diffondere la conoscenza dell’autore e promuoverne il patrimonio in collaborazione con le istituzioni che si occupano di arte contemporanea tout court. Ghizzardi è un artista senza necessità di attributi complementari».
L’artista, per tutta la vita, non ha mai sentito il bisogno di appartenere a movimenti o correnti. Incurante del giudizio degli altri, è andato avanti nella sua opera dipingendo donne sognate in maniera ossessiva e tematiche religiose, come, ad esempio, l’imponente Mosè (con le sue tavole della legge, circondato da animali) o una particolarissima Ultima Cena murale. Anche Nicola Mazzeo, docente di sociologia della religione presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e patron della Galleria “Rizomi Art Brut” di Parma, non ritiene giusto ingabbiare il pittore: «Non sono naif gli esordi, non lo sono i collage, né la tecnica con cui dipinge. In Italia l’idea della pittura alternativa alle avanguardie era quella della pittura naif. Che Ghizzardi non fosse dell’avanguardia era evidente e quindi evidentemente doveva essere naif».