Recensioni / «Il lungo cammino da me a me» di Imre Toth

«Il lungo cammino da me a me» di Imre Toth, publicato da Quodlibet, raccoglie le interviste che Péter Vàrdy, dalla fine degli anni Ottanta, fece al filosofo. Vàrdy ricorda di aver conosciuto, nell’autunno del 1974, Toth che nel 1970, «su proposta di Karl Popper precisa Vàrdy, era stato nominato alla cattedra di Filosofia della matematica dell’Università di Regensburg». «Nella nostra ricerca siamo stati attenti in primo luogo alla vita quotidiana: com’è stata e com’è cambiata nel corso del secolo, sul piano dell’ambiente, dei rapporti, della scuola, della strada, della relazione tra ebrei e non ebrei».
Vàrdy nel 1982 dà alle stampe un saggio intitolato «Il passato incompiuto. La realtà ebraica in Ungheria oggi». Riceve una lettera da Toth nella quale il filosofo, allora sessantenne, scrive: «il beneficio personale di questo saggio è stato di rendermi chiaro qualcosa di cui non ero consapevole prima (questo certamente ti sorprenderà e lo troverai incredibile): sapere che gli ebrei avevano e hanno un problema d’identità permanente. L’ho vissuto io stesso, più d’una volta, come tipico soggetto, passivo e attivo, predicato e oggetto; l’ho visto anche brillare in altri con tutti i colori dell’arcobaleno politico – e tuttavia non avevo coscienza della sua esistenza».
E poi, aggiunge, «questa presa di coscienza, vale a dire la tua tesi sulla crisi identitaria degli ebrei e sulla necessità di superarla, infonde nel mio animo intimidito coraggio per offrire anch’io un contributo scritto a questo testo interminabile». Quindici anni dopo, nel 1997, a Napoli, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Toth tratta dell’argomento «Essere ebreo dopo l’Olocausto», testo pubblicato in volume nel 2002, per iniziativa di Romano Romani, presso l’editore Cadmo. Toth descrive la condizione ebraica nella storia dell’Occidente come il contrassegno di una insostituibile funzione di ‘mediazione’ e, per lumeggiarla, fa ricorso a tre parole latine: ‘commercium’, ‘negotium’, ‘speculatio’. Aggiunge: «la mediazione ha certamente il suo genio particolare. Suo fondamento è la capacità d’‘intelligere’, la facoltà di comprendere simultaneamente le due parti in presenza, l’amico e il nemico; la capacità d’identificare lo Stesso e l’Altro». E l’individuo acquista il senso del rispetto dell’altro come connotato della dignità sua attraverso l’intelligenza e la memoria. Per questo gli Ebrei – «la loro patria non era in nessun luogo, perché era ovunque» – ed il loro Libro dove sta scritto «Non uccidere!» – rappresentano il «‘tessuto connettivo’ dell’Umanità». Una speciale condizione, dunque, questa interstiziale di ‘mediatori’. Gli Ebrei sono in Occidente un veicolo proteso «verso la realizzazione dell’universale, verso l’unità dell’Umanità». Una funzione storica tanto essenziale quanto contrastata assiduamente e, lungo il corso dei secoli, violentemente combattuta sotto spoglia di antisemitismo.
E tuttavia, se l’antisemitismo è – come constata Toth – «una dimensione specifica e propria del pensiero occidentale»; se, nel profondo, «appartiene alla sua essenza stessa», esso è tanto radicato proprio perché agisce a contrasto di quel «movimento incessante», autentica essenza dell’Occidente, che è ostinatamente volto alla affermazione della dignità dell’uomo. Così le pagine autobiografiche di «Il lungo cammino da me a me» assurgono ad una dimensione esemplare, sono memoria filosofica.
Romani ha scritto nella «Postilla» che si legge in appendice a «Essere ebreo»: «il che cosa dell’identità ebraica è il che cosa dell’identità umana, certamente nella temperie della civiltà occidentale, ma anche oltre essa». E aggiunge: «questo ‘oltre’ disegna la fisionomia della storia intesa non soltanto come memoria, ma anche e soprattutto come ricerca alla quale la memoria è indispensabile. È la storia l’essenza del ‘lógos’: penso sia questa la convinzione che più profondamente Toth condivide con Hegel».