Recensioni / Nella notte europea dei profughi

Per capire Arno Schmidt, una delle penne più oblique e fuori misura del secondo dopoguerra, bisogna fissare gli occhi al cielo. Guardate in alto, cercate la luna e non fermatevi, anche se ne avete trovata una già alla prima riga: «La luna precoce strisciava, rachiticamente curva, sul terrapieno della ferrovia; ancora una volta sazia di carne». Un astro distorto, scomposto, eccessivo, impudico, che sembra disegnato apposta per far il paio con uomini, e donne, altrettanto spaesati e instabili. Nei Profughi, tradotto e curato da Dario Borso per Quodlibet, di lune, descritte, invocate, o carpite ai cangianti cieli tedeschi, ce ne sono almeno una ventina. Siccome i fuggiaschi di cui narra il libro sono due, il conto è presto detto. Fanno dieci lune per lui e altrettante per lei. Se fosse solo una storia d’amore, tutti questi astri d’argento se ne starebbero romanticamente a far la guardia a baci, abbracci e sospiri. Ma qui si scappa – dalla guerra, dall’odio e dalla miseria – e così anche stelle, pianeti e lune devono correre, patire e languire. Il dramma sullo sfondo è quello dei dieci milioni di tedeschi scacciati dall’Europa centro-orientale dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Una massa enorme, costretta a rifarsi la vita in una Germania assillata dai problemi della ricostruzione, e poco propensa alla solidarietà.
Schmidt, che questo esodo lo visse in prima persona, traspone il proprio affannoso esilio, e quello della moglie, in una funambolica pièce letteraria, scritta nel 1952. I protagonisti, uno scrittore che traduce per sopravvivere e una vedova di guerra, riescono a trasformare treni in perenne movimento, catapecchie striminzite e ostili città nordiche in un fondale smaltato d’erotismo e d’ironia. Pagine spesso ruvide, tradotte con virtuosismo sperimentale da Borso, che ci fanno rivivere il tempo, non lontano, in cui la Germania pullulava di sradicati e d’incattiviti. Terra profuga e di profughi, reietta per i crimini di cui s’è macchiata, pallida e corrucciata, questa di Schmidt è tutto tranne che una patria. Non è affatto un bel paese, così come la storia tedesca del Novecento non è bella né consolante. E se avete voglia di svignarvela per qualche scorciatoia celeste, sappiate che le lune, quando sono troppe, finiscono per confondere e sviare. Mentre Schmidt scrive e scrive, il lettore si domanda perché dovrebbe immedesimarsi nel mondo«gran poroso, lascivo, sradicato» evocato dal libro. Nessuno vuol rispondere e forse la domanda è mal posta. Un paese sconfitto, dilaniato, in macerie non è buon posto per sottrarsi al cruccio di vivere. «Paesaggio?: niente; dunque il cielaggio (sopramondo): boa argentea, diagonalmente ancorata nel fiume di nuvole». I due protagonisti scivolano sotto un cielo lattiginoso, come non riuscissero mai ad afferrare i bordi di un continente in bilico, inclinato, senza appigli. La loro notte di profughi è la grande notte d’Europa, allora come ora. Come orientarsi? Che si debba guardare in alto, l’abbiamo scritto fin da subito. Cosa ci si possa trovare, lassù, tra le nubi, fatevelo raccontare, quando vien buio, da colei che della notte è regina. Per capire Arno Schmidt, una delle penne più oblique e fuori misura del secondo dopoguerra, bisogna fissare gli occhi al cielo. Guardate in alto, cercate la luna e non fermatevi, anche se ne avete trovata una già alla prima riga: «La luna precoce strisciava, rachiticamente curva, sul terrapieno della ferrovia; ancora una volta sazia di carne». Un astro distorto, scomposto, eccessivo, impudico, che sembra disegnato apposta per far il paio con uomini, e donne, altrettanto spaesati e instabili. Nei Profughi, tradotto e curato da Dario Borso per Quodlibet, di lune, descritte, invocate, o carpite ai cangianti cieli tedeschi, ce ne sono almeno una ventina. Siccome i fuggiaschi di cui narra il libro sono due, il conto è presto detto. Fanno dieci lune per lui e altrettante per lei. Se fosse solo una storia d’amore, tutti questi astri d’argento se ne starebbero romanticamente a far la guardia a baci, abbracci e sospiri. Ma qui si scappa – dalla guerra, dall’odio e dalla miseria – e così anche stelle, pianeti e lune devono correre, patire e languire. Il dramma sullo sfondo è quello dei dieci milioni di tedeschi scacciati dall’Europa centro-orientale dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Una massa enorme, costretta a rifarsi la vita in una Germania assillata dai problemi della ricostruzione, e poco propensa alla solidarietà.
Schmidt, che questo esodo lo visse in prima persona, traspone il proprio affannoso esilio, e quello della moglie, in una funambolica pièce letteraria, scritta nel 1952. I protagonisti, uno scrittore che traduce per sopravvivere e una vedova di guerra, riescono a trasformare treni in perenne movimento, catapecchie striminzite e ostili città nordiche in un fondale smaltato d’erotismo e d’ironia. Pagine spesso ruvide, tradotte con virtuosismo sperimentale da Borso, che ci fanno rivivere il tempo, non lontano, in cui la Germania pullulava di sradicati e d’incattiviti. Terra profuga e di profughi, reietta per i crimini di cui s’è macchiata, pallida e corrucciata, questa di Schmidt è tutto tranne che una patria. Non è affatto un bel paese, così come la storia tedesca del Novecento non è bella né consolante. E se avete voglia di svignarvela per qualche scorciatoia celeste, sappiate che le lune, quando sono troppe, finiscono per confondere e sviare. Mentre Schmidt scrive e scrive, il lettore si domanda perché dovrebbe immedesimarsi nel mondo«gran poroso, lascivo, sradicato» evocato dal libro. Nessuno vuol rispondere e forse la domanda è mal posta. Un paese sconfitto, dilaniato, in macerie non è buon posto per sottrarsi al cruccio di vivere. «Paesaggio?: niente; dunque il cielaggio (sopramondo): boa argentea, diagonalmente ancorata nel fiume di nuvole». I due protagonisti scivolano sotto un cielo lattiginoso, come non riuscissero mai ad afferrare i bordi di un continente in bilico, inclinato, senza appigli. La loro notte di profughi è la grande notte d’Europa, allora come ora. Come orientarsi? Che si debba guardare in alto, l’abbiamo scritto fin da subito. Cosa ci si possa trovare, lassù, tra le nubi, fatevelo raccontare, quando vien buio, da colei che della notte è regina.