Il giudice e lo storico
di Carlo Ginzburg
Un leggero spaesamento. Questa è la prima sensazione provata da chi, abituato per ragioni di mestiere a leggere processi inquisitoriali del Cinquecento e del Seicento, si accosti agli atti dell’istruttoria condotta nel 1988 da Antonio Lombardi (giudice istruttore) e Ferdinando Pomarici (sostituto procuratore) a carico di Leonardo Marino e dei suoi presunti correi. Spaesamento, perché questi documenti hanno, contro ogni aspettativa, una fisionomia curiosamente familiare. Ci sono diversità importanti, come la presenza di avvocati difensori, prevista bensì da un manuale inquisitoriale come il Sacro Arsenale di Eliseo Masini (Genova 1621), ma a quel tempo raramente messa in pratica. E tuttavia, così come nelle aule inquisitoriali di tre o quattro secoli fa, gli interrogatori degli indiziati di reato si svolgono in segreto, al riparo dagli sguardi indiscreti del pubblico (addirittura in sedi improprie come caserme dei carabinieri).
Si svolgono – o meglio, si svolgevano. Con l’entrata in vigore del nuovo codice è parzialmente scomparsa dal processo penale italiano l’istruttoria segreta: ossia l’aspetto prevalentemente inquisitorio che malamente si accoppiava all’altro, prevalentemente accusatorio, costituito dalla fase dibattimentale. L’istruttoria condotta da Lombardi e Pomarici contro Marino e i suoi presunti complici è stata una delle ultime (forse addirittura l’ultima) a essere condotta in base al vecchio codice.
Ma l’impressione di continuità col passato che mi aveva colpito immediatamente non era legata soltanto agli aspetti istituzionali della fase istruttoria. Essa era dovuta a una somiglianza più sottile e specifica con i processi inquisitoriali che conosco meglio: quelli contro donne e uomini accusati di stregoneria. In essi la chiamata di correo ha un’importanza cruciale: soprattutto quando al centro delle confessioni degli imputati c’è il sabba, il convegno notturno di streghe e stregoni. Talvolta spontaneamente, più spesso incalzati dalla tortura o dalle suggestioni dei giudici, gli imputati finivano col fare i nomi di quanti avevano partecipato con loro ai riti diabolici. In questo modo un processo poteva (come di fatto spesso avvenne) generarne cinque, dieci, venti, fino a coinvolgere comunità intere. Ma l’Inquisizione romana, erede dell’Inquisizione medievale (o, come viene anche chiamata, vescovile) che aveva dato un impulso decisiv alla persecuzione della stregoneria, fu anche la prima a porsi dei dubbi sulla legittimità giuridica di questo tipo di procedura. All’inizio del Seicento negli ambienti della Congregazione romana del Sant’Uffizio fu redatto un documento, intitolato Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum & maleficiorum (Istruzione sul modo di procedere nei processi di streghe, di sortilegi e di malefici), che segnava rispetto al passato una svolta netta. L’esperienza, vi si diceva, mostra che
fino a oggi i processi di stregoneria non sono stati condotti quasi mai in base a criteri accettabili. I giudici dei tribunali inquisitoriali periferici venivano perciò avvertiti: attraverso «esquisite diligenze giuditiali» avrebbero dovuto controllare tutte le affermazioni degli imputati; rintracciare, se possibile, i corpi del reato; provare che guarigioni o malattie non erano riconducibili a cause naturali.
Anche il processo di cui voglio parlare s’impernia su una figura di imputato-teste, di un imputato che è contemporaneamente accusatore di sé stesso e di altri. Le autoaccuse di Leonardo Marino sono il punto d’arrivo di una tragica sequenza
di fatti notissimi. [...] Il 17 maggio 1972 Calabresi viene ucciso con due colpi di pistola sotto il portone della propria casa. Nessuno rivendica l’assassinio. Il giorno dopo un commento apparso sul quotidiano «Lotta Continua» ne dà un giudizio sostanzialmente favorevole («un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia») ma non lo fa proprio. Qualche tempo dopo vengono indiziati del crimine alcuni estremisti di destra: un procedimento poi lasciato cadere per mancanza di prove. Passano sedici anni. Il 19 luglio 1988 un ex operaio della Fiat, già militante di Lotta Continua – Leonardo Marino –, si presenta alla stazione dei carabinieri di Ameglia (non lontano da Bocca di Magra, dove vive con la famiglia) dicendo di essere in preda a una crisi di coscienza e di voler confessare vari reati connessi alla sua passata militanza politica. (La cronologia del pentimento che viene data qui è quella diffusa inizialmente, non quella emersa due anni dopo nel corso del processo.) Il 20 luglio Marino viene condotto negli uffici del nucleo operativo dei carabinieri di Milano, dove vengono verbalizzate le sue prime dichiarazioni. Il giorno dopo, alla presenza del sostituto procuratore Ferdinando Pomarici, dichiara di aver preso parte, oltre che a una serie di rapine commesse tra il 1971 e il 1987, all’uccisione di Calabresi. Essa era stata decisa (sempre secondo la versione di Marino) a maggioranza dall’esecutivo nazionale di Lotta Continua. Lui stesso, Marino, era stato incitato a partecipare all’azione da uno dei dirigenti del gruppo, Giorgio Pietrostefani; aveva acconsentito solo dopo aver avuto (a Pisa, dopo un comizio) una conferma esplicita della decisione da parte di Sofri, a cui era particolarmente legato; qualche giorno dopo l’incontro con Sofri si era recato a Milano e aveva aspettato sotto la casa di Calabresi insieme a Ovidio Bompressi; subito dopo l’omicidio aveva fatto salire Bompressi, l’esecutore materiale, su un’automobile rubata tre sere prima ed era fuggito. Tutto ciò raccontato con grande abbondanza di particolari. Ma i racconti, anche minuziosi, di un imputato-teste non costituiscono una garanzia sufficiente: se n’erano accorti già i giudici dell’Inquisizione romana all’inizio del Seicento rileggendo i processi di stregoneria celebrati dai loro colleghi. Una confessione, per essere attendibile, dev’essere corroborata da riscontri oggettivi.
Vedremo tra poco come i giudici del processo contro i presunti autori dell’assassinio di Calabresi abbiano affrontato questa
difficoltà. Fin d’ora però va sottolineato che trovare prove o riscontri oggettivi è un’operazione che accomuna non solo gli inquisitori di trecentocinquant’anni fa ai giudici di oggi, ma anche gli storici di oggi agli uni e agli altri. Su quest’ultima convergenza, e soprattutto sulle sue implicazioni, vale la pena di soffermarsi.