Giù la piazza non c’è nessuno
di Dolores Prato
Sono nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva
sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: «Rimandala
a sua madre, non vedi che ci muore in casa?».
Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce.
Madre, muore, nessun significato, ma rimandala sì, rimandala voleva
dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire mettermi
fuori del portone e richiuderlo.
Pur protetta dal tappeto che con le frange sfiorava il pavimento,
ascoltavo fitto fitto: tante volte venissero a cercarmi per mettermi
fuori!
Sedevo sui mattoni. Molliche indurite mi si conficcavano nella
pelle come sassolini. Quel primo pezzetto di mondo immagazzinato
dalla mia memoria lo vedo come adesso vedo la mia mano che scrive.
Mattoni rettangolari color crosta di pane, uno coricato, uno dritto,
facevano un tessuto a spina. Come soffitto il rovescio della tavola
attraversato da stanghe di legno; le quattro gambe unite da assicelle
su cui la gente metteva i piedi, più consumata nel mezzo; l’intera impalcatura
ammantata dal pesante tappeto: tutti colori notturni intramezzati
da fili d’oro; foglie nere, fiori con parvenza di colori morti,
case appuntite trapunte d’oro, nello scuro meno fondo apparivano
facce di mori e luccichio d’occhi. Il primo fatto storico della mia vita,
intreccio di paura e meraviglia, fu sotto quel tavolino.
La causa di tutto, un prete. Che ne poteva sapere lui che i bambini
afferrano più di quanto i grandi suppongono? Non lo sapevano
neppure quelli che i figli se li son fatti.
Per i signori era don Domenico; per la gente comune era don
Domé. La zia diceva ancora Menghino, voce d’altro luogo che stava
morendo, mentre già nasceva: Domé. Faceva tutto da signora,
si confondeva col popolo solo per chiamare il fratello. Lui no, non
troncava mai i nomi, lui diceva Paolina, lui parlava esatto come un
vocabolario. Ma quel che succedeva a lui, succedeva a lei: una categoria
di gente diceva sora Paolì, un’altra signora Paolina.