Giorgio Agamben, Abitare e costruire

Abitare e costruire

Vorrei che le riflessioni che cercherò oggi di comunicarvi siano considerate da voi senza separarle dal contesto in cui sono nate, che è quello delle indagini archeologiche che mi hanno impegnato ormai da quasi trent’anni. Come sapete, l’archeologia che è qui in questione, pur essendo strettamente legata alla storia, cioè alla paziente, minuziosa ricostruzione di fatti ed eventi in una cronologia, non coincide con essa, perché essa si mantiene sempre in rapporto con quello che Foucault chiamava, con un’espressione certamente paradossale, a priori storico, cioè con un principio, una arché che pur non essendo metastorica, non può però essere situata in una cronologia. Si tratta non tanto di un’origine, quanto piuttosto di uno scarto fra il punto di insorgenza di un fenomeno e la tradizione delle fonti che ce lo trasmettono. La scommessa dell’archeologia è che proprio questo scarto, questa eccedenza del fenomeno rispetto alla sua tradizione storica ce lo rende comprensibile al di là del contesto delle cause e degli effetti su cui si sofferma l’indagine storiografica.
È in questa prospettiva non meramente storiografica, ma archeologica che vorrei accoglieste le brevi e certamente troppo sommarie congetture sull’a priori dell’architettura che vi presenterò. Anche la diagnosi certamente critica sulla situazione dell’architettura nel nostro tempo che ne risulterà deve essere vista in questo contesto archeologico. E questo è tanto più necessario, trattandosi di un incontro in cui è in questione l’identità dell’architettura, che nel suo stesso nome sembra implicare un riferimento essenziale all’arché.

Proverò dunque a riflettere su quale potrebbe essere l’a priori storico dell’architettura moderna (diciamo, a partire dalla metà del secolo XIX, cioè da quando esistono le facoltà di architettura). Per rispondere a questa domanda, converrà prima chiedersi se esista qualcosa come un a priori storico dell’architettura in generale. Penso che possiamo accordarci sul fatto che qualcosa come l’architettura è possibile perché l’uomo è un essere abitante. L’abitazione – o, piuttosto, il nesso fra costruzione e abitazione – è, cioè, l’a priori, la condizione di possibilità dell’architettura. L’architettura è arte della costruzione, nella misura in cui è, anche, arte dell’abitazione.
Émile Benveniste, l’autore di quel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, senza il quale è forse impossibile comprendere la storia della cultura occidentale, ha osservato una volta che i termini indoeuropei che designano la casa sembrano sovrapporre l’una sull’altra due nozioni distinte: da una parte la casa-abitazione, che esprime un’appartenenza sociale (che in latino si dice domus, il luogo della familia e della gens) e dall’altra la casa-edificio (che in latino si dice aedes). Secondo Benveniste, queste nozioni, che si tende a confondere nella radice indoeuropea *dem, vanno invece tenute distinte: la casa -abitazione e la casa-edificio, anche se, almeno in parte, possono coincidere nello spazio, esprimono due realtà che hanno ben poco a che fare l’una con l’altra. Domi, l’essere-a-casa, non significa «trovarsi in un certo edificio», ma appartenere a un determinato contesto giuridico e sociale (la domus-familia) nella quale si è e ci si sente a casa, non solo perché si è tra i propri familiari, ma anche perché, come mostra la contrapposizione domi bellique, «in pace e in guerra», nella casa sono possibili certe relazioni e escluse altre, come quelle che si hanno con un hostis, un nemico pubblico.
Se le considerazioni di Benveniste sono esatte, ciò significa che il rapporto fra costruzione e abitazione lungi dall’essere scontato come si potrebbe credere è quanto meno problematico ed è su questo rapporto che vorrei invitarvi a riflettere.

Il Vocabolario di Benveniste, che contiene questa analisi della radice *dem, è del 1969. Nel 1951, Heidegger aveva tenuto a Darmstadt una conferenza dal titolo Costruire abitare pensare, in cui si sosteneva la tesi contraria: costruire (bauen) significa originalmente «abitare» (buan, wohnen) ed è solo l’abitare che dà il suo senso al costruire. L’uomo è un essere che costruisce perché abita, ma questo essere unitario dell’uomo è minacciato da uno spaesamento essenziale, che mette ogni volta in pericolo l’unità di costruire e abitare.
In questa prospettiva, l’architettura potrebbe essere definita come il tentativo di tenere insieme i due significati della radice indoeuropea *dem, costruire e abitare. Costruire significa verificare o realizzare un appartenenza sociale, un essere-a-casa, e, viceversa, appartenere a un contesto sociale, essere-a-casa, abitare significa costruire. Ma è veramente così?

Se torniamo ora alla nostra domanda sull’a priori storico dell’architettura moderna, l’ipotesi che vorrei proporvi è che l’unità – già in sé problematica – di abitare e costruire si è un certo punto – per ragioni che non possiamo in questa sede indagare – spezzata. L’a priori storico dell’architettura sarebbe allora oggi precisamente l’impossibilità o l’incapacità di abitare dell’uomo moderno e, per gli architetti, la conseguente rottura del rapporto fra arte della costruzione e arte dell’abitazione.
Ciò permette di dar ragione del curioso fenomeno per cui nello stesso momento in cui nascono le facoltà di architettura, gli uomini, che fin allora erano stati capaci di costruire e abitare le loro case, perdono questa facoltà e, con questa, anche la capacità di sentirsi veramente a casa, quasi che l’architettura agisse come una di quelle che Ivan Illich ha chiamato «professioni disabilitanti» (ipertrofia delle professioni nel nostro tempo, tutto ciò che gli uomini facevano spontaneamente si professionalizza). Ma permette soprattutto di spiegare un fenomeno su cui penso che gli studenti di architettura non dovrebbero mai cessare di riflettere, e cioè il fatto che, come sapete, il campo di Auschwitz è stato progettato e realizzato da un architetto, Fritz Erl, che aveva fatto i suoi studi nel Bauhaus. Per una fortunata – o, forse sfortunata – circostanza, il progetto del campo, firmato insieme a un altro architetto, Walter Dejaco, ci è stato conservato. I due architetti furono processati a Vienna nel 1972 e assolti. Ma la domanda che sorge a questo punto è: com’è possibile che degli architetti, della cui serietà non abbiamo motivo di dubitare, abbiano potuto progettare un edificio in cui in nessun caso sarebbe stato possibile sentirsi a casa, cioè abitare? Che cosa può essere un’architettura che si fonda sull’impossibilità dell’abitazione? Questa è la domanda che sono venuto a porvi.
Eppure, se le considerazioni fin qui svolte sono corrette, la tesi che ne consegue è che l’architettura si trova oggi nella situazione storica di dover costruire l’inabitabile.
Può l’architettura costruire l’inabitabile? Eppure non è questo che oggi fanno senza esitare architetti di fama, quando preferiscono costruire centri commerciali, aereoporti e altri spazi (forse anche i musei potrebbero essere inclusi in questa categoria), rispetto ai quali parlare di abitazione non sembra onestamente possibile?

Qualche parola sul modo in cui vorrei fosse intesa l’ipotesi che ho appena formulato. Questa ipotesi non va in alcun modo vista come una diagnosi apocalittica con pretese di validità storica, nel senso che a un certo momento cronologicamente databile gli uomini avrebbero perso il nesso fra costruzione e abitazione. Il fatto che Alberti, Filarete e Vasari il giovane accennino al problema dell’architettura delle carceri, mostra come si debba essere cauti nel formulare ipotesi come quella qui proposta, secondo cui l’architettura si troverebbe oggi per la prima volta di fronte al problema della costruzione dell’inabitabile. Si tratta piuttosto, almeno nel mio caso, di ipotesi e di paradigmi il cui scopo è di rendere comprensibile una determinata situazione storica e non di una diagnosi apocalittica travestita da indagine storica. Molti anni fa, quando, all’inizio della mia indagine sull’Homo sacer, avevo scritto che il campo e non la città è oggi il paradigma politico dell’occidente, questa affermazione aveva suscitato scandalo e reazioni polemiche. Oggi questa tesi, restituita alla sua natura di paradigma filosofico e non di tesi storiografica che fa di ogni erba un fascio, è accettata da quasi tutti gli studiosi della politica che non siano apologeti benpensanti del sistema.
Resta che anche un paradigma acheologico-filosofico può avere anche sul piano storico delle implicazioni etiche, nel senso che, se il problema dell’abitazione non può essere separato da quello della costruzione, affermazioni come quella che si può leggere in una storia dell’architettura carceraria, secondo cui il carcere non ha ancora trovato il suo poeta, è quanto meno incauta, perché forse non può né deve trovarlo (a meno che, cosa improbabile nell’attuale congiuntura politica, l’architetto non intenda compiere un gesto rivoluzionario, nel senso stretto del termine, contro l’apparato statuale).
Eppure accade oggi di dover ascoltare in questo ambito dei discorsi quanto meno irresponsabili. Pochi giorni fa un ex sindaco di Venezia, che ha insegnato per decenni in una facoltà di architettura, ha dichiarato che credere che si possa oggi riportare gli abitanti invece dei turisti nelle loro città è un discorso di anime belle. È probabile che l’autore di questa affermazione cerchi semplicemente di coprire le proprie responsabilità nel degrado della città che doveva amministrare, ma che il concetto stesso di abitazione sia in questo modo considerato obsoleto è certamente significativo.

Ma che significa «abitare»?
Il verbo latino habitare, da cui deriva il nostro termine «abitazione», è un frequentativo di habeo, che significa avere. Noi usiamo il verbo avere – come facciamo del resto per il verbo essere – come se il suo significato fosse scontato. Non è così. Sempre di Émile Benveniste possediamo un saggio prezioso, il cui titolo è Essere e avere nelle loro funzioni linguistiche, che mostra che non solo il significato di questi due verbi è estremamente problematico, ma che essi sono anche legati da una relazione complessa. Scopriamo così che il verbo avere – come il verbo essere – è assente nella maggior parte delle lingue. In molte lingue, come in arabo e nelle lingue altaiche, esso è sostituito da espressioni del tipo «essere a» o «essere di». Da questo è facile trarre la conclusione che avere non è che l’inverso di «essere-a», che è l’espressione normale. Mihi est pecunia si rovescia in ego habeo pecuniam: la cosa che era soggetto nella prima espressione si trasforma nella seconda in oggetto.
La conclusione di Benveniste è che tanto essere che avere sono verbi di stato. Ma, pur essendo vicini, essi differiscono, perché essere è lo stato dell’essente, di chi è qualcosa; avere è lo stato dell’avente, di chi ha o possiede qualcosa. Essere stabilisce fra i due termini un rapporto intrinseco di identità, avere un rapporto estrinseco di possesso.
Ma è veramente così? Alcuni degli esempi che Benveniste cita fanno pensare che il significato dei due verbi sia ancora più vicino di quanto il linguista vorrebbe suggerire.
Da habeo derivano habilis («facile da avere o maneggiare, che si presta bene all’uso» poi «abile, capace di fare qualcosa»); habitus («modo di essere, contegno, tenuta» – quindi «capacità, disposizione, abito» – per esempio, l’architetto ha l’abito della tecnica di costruire); habitudo («modo di tenersi o comportarsi stabilmente», «costituzione corporea» – e, più tardi «abitudine»); habena (correggia, briglia, ciò da cui qualcosa è tenuto insieme). Istruttiva è anche la formula comune bene habet, va bene, o se bene habere, star bene. E, infine, il nostro verbo intensivo habitare, che non significa soltanto «stare abitualmente, dimorare», ma innanzitutto «avere stabilmente o di solito, avere l’habitus o l’abitudine di qualcosa»: si noti la curiosa espressione, attestata ad esempio in Gregorio Magno e nel vocabolario monastico, secum habitare, abitare con sé, cioè: avere un certo abito di sé, un certo modo di essere e di vivere rispetto a se stessi, un certo uso di sé.
Come questi vocaboli suggeriscono, i significati di avere e di essere sembrano quasi indeterminarsi, quasi che avere significasse innanzitutto «avere un certo modo di essere», essere disposto in un certo modo. L’abitazione diventa in questo senso una categoria ontologica. Abitare – questa è la definizione che vorrei provvisoriamente proporvi – significa creare, conservare e intensificare abiti e abitudini, cioè modi di essere.
L’uomo è un essere «abitante», perché esiste sul modo dell’avere – cioè, nel senso che si è visto, dell’abilità, dell’abito e dell’abitudine. L’uomo è, cioè, un vivente che trasforma l’essere in un avere: in abilità, tecniche, abiti ed abitudini. Vi è una reciprocità e un continuo scambio fra essere e avere. E questa reciprocità è anche una buona definizione dell’etica, se non si dimentica che il vocabolo greco ethos ha a che fare con il modo di essere e vivere con gli altri e innanzitutto con sé, se non si dimentica, cioè, che l’etica è innanzitutto un secum habitare. Per questo l’uomo ha bisogno non solo di una tana o di un nido, ma di una casa, cioè di un luogo dove «abitare», dove costruire, conoscere e esercitare intensamente i suoi «abiti». Costruire, che è l’oggetto dell’architettura, presuppone o ha costitutivamente a che fare con l’abitazione, la facoltà di abitare. La rottura del nesso fra costruzione e abitazione implica allora per l’architettura una crisi radicale, con la quale chi pratica seriamente quest’arte non può fare a meno di misurarsi.

Il testo è parte di una conferenza tenuta alla Facoltà di architettura dell’Università di Roma La Sapienza il 7 dicembre 2018.