Elogio di uno scrittore
Il 30 maggio del 1939 fu sepolto nel cimitero di Thiais a Parigi un uomo, il cui funerale era stato benedetto da un prete cattolico, benché egli non fosse mai stato battezzato.
Era ebreo, ma i suoi amici ebrei rinunciarono a recitare il kaddish. Era probabilmente morto di delirium tremens, ma i medici diagnosticarono una sincope. Era cittadino della repubblica austriaca, ma si dichiarava suddito degli Asburgo.
Quest’uomo – uno dei massimi scrittori del XX secolo – si chiamava Joseph Roth. Aveva soltanto quarantacinque anni, ma
pensava che la morte sarebbe giunta comunque troppo tardi. Non aveva – così diceva – nessuno alle spalle, né un popolo né uno stato. Solo la lingua in cui scriveva – ma nemmeno questo è sicuro, se qualcuno ha potuto sentire nel
suo tedesco
la voce
dello
yiddish e il respiro del
russo. Eppure forse nessuno come lui aveva visto con tanta lucidità lo sfacelo del mondo che lo circondava né descritto con tanta inaudita vivezza e gioiosa
precisione le strade, i caffè, gli alberghi delle città in cui gli era capitato di vivere. Forse nessuno era stato così insolentemente felice in tutto ciò che andava perdendo, che aveva già irrevocabilmente perduto.
Per questo nessuno scrittore del Novecento ci è come lui vicino. Anche noi non possiamo crederci cittadini dello stato in cui ci è toccato di
vivere. Siamo stati battezzati,
ma non apparteniamo in alcun
modo alla chiesa. Come lui, non abbiamo più nulla
alle spalle, non un popolo e tanto meno
una nazione. Ma questo non ci toglie la capacità di essere felici e di provare a scrivere e a parlare lietamente
in una lingua che ci rifiutiamo di identificare
con
l’insulso sproloquio
che i media e le scuole non si stancano di propagare e avvilire. Senza credere
in nessuno dei valori e delle leggi che ci sono imposti,
abbiamo
come lui conservata vergine e intatta la fede nell’erba, nel cielo stellato, nel silenzio e nella bellezza dei volti.