Giorgio Agamben, Quando la casa brucia

Quando la casa brucia

«Tutto quello che faccio non ha senso, se la casa brucia». Eppure proprio mentre la casa brucia occorre continuare come sempre, fare tutto con cura e precisione, forse ancora più studiosamente – anche se nessuno dovesse accorgersene. Può darsi che la vita sparisca dalla terra, che nessuna memoria resti di quello che è stato fatto, nel bene e nel male. Ma tu continua come prima, è tardi per cambiare, non c’è più tempo.


«Quel che accade intorno a te / non è più affar tuo». Come la geografia di un paese che devi lasciare per sempre. Eppure in che modo ancora ti riguarda? Proprio ora che non è più affar tuo, che tutto sembra finito, ogni cosa e ogni luogo appaiono nella loro veste più vera, ti toccano in qualche modo più da vicino – così come sono: splendore e miseria.


La filosofia, lingua morta. «La lingua dei poeti è sempre una lingua morta… curioso a dirsi: lingua morta che si usa a dar maggior vita al pensiero». Forse non una lingua morta, ma un dialetto. Che filosofia e poesia parlino in una lingua che è più meno della lingua, questo dà la misura del loro rango, della loro speciale vitalità. Pesare, giudicare il mondo commisurandolo a un dialetto, a una lingua morta e, tuttavia, sorgiva, dove non c’è da cambiare nemmeno una virgola. Continua a parlare questo dialetto, ora che la casa brucia.


Quale casa sta bruciando? Il paese dove vivi o l’Europa o il mondo intero? Forse le case, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere. Di alcune restano solo dei pezzi di muro, una parete affrescata, un lembo del tetto, dei nomi, moltissimi nomi, già morsi dal fuoco. E, tuttavia, li ricopriamo così accuratamente con intonachi bianchi e parole mendaci, che sembrano intatti. Viviamo in case, in città arse da cima a fondo come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovine quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo.
E ora la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda, ma proprio per questo è ancora più vicina, ci sta addosso e circonda in ogni istante.


Che una civiltà – una barbarie – sprofondi per non più risollevarsi, questo è già avvenuto e gli storici sono abituati a segnare e datare cesure e naufragi. Ma come testimoniare di un mondo che va in rovina con gli occhi bendati e il viso coperto, di una repubblica che crolla senza lucidità né fierezza, in abiezione e paura? La cecità è tanto più disperata, perché i naufraghi pretendono di governare il proprio naufragio, giurano che tutto può essere tenuto tecnicamente sotto controllo, che non c’è bisogno né di un nuovo dio né di un nuovo cielo – soltanto di divieti, di esperti e di medici. Panico e furfanteria.


Che cosa sarebbe un Dio al quale non si rivolgessero né preghiere né sacrifici? E che cosa sarebbe una legge che non conoscesse né comando né esecuzione? E che cosa una parola che non significa né comanda, ma si tiene veramente nel principio – anzi prima di esso?


Una cultura che si sente alla fine, senza più vita, cerca di governare come può la sua rovina attraverso uno stato di eccezione permanente. La mobilitazione totale nella quale Jünger vedeva il carattere essenziale del nostro tempo va vista in questa prospettiva. Gli uomini devono essere mobilitati, devono sentirsi ogni istante in una condizione di emergenza, regolata nei minimi particolari da chi ha il potere di deciderla. Ma mentre la mobilitazione aveva in passato lo scopo di avvicinare gli uomini, ora mira a isolarli e a distanziarli gli uni dagli altri.


Da quanto tempo la casa brucia? Da quanto tempo è bruciata? Certamente un secolo fa, fra il 1914 e il 1918, qualcosa è avvenuto in Europa che ha gettato nelle fiamme e nella follia tutto quello che sembrava restare di integro e vivo; poi nuovamente, trent’anni dopo, il rogo è divampato ovunque e da allora non cessa di ardere, senza tregua, sommesso, appena visibile sotto la cenere. Ma forse l’incendio è cominciato già molto prima, quando il cieco impulso dell’umanità verso la salvezza e il progresso si è unito alla potenza del fuoco e delle macchine. Tutto questo è noto e non serve ripeterlo. Piuttosto occorre chiedersi come abbiamo potuto continuare a vivere e pensare mentre tutto bruciava, che cosa restava in qualche modo integro nel centro del rogo o ai suoi margini. Come siamo riusciti a respirare fra le fiamme, che cosa abbiamo perduto, a quale relitto – o a quale impostura – ci siamo attaccati.
Ed ora che non ci sono più fiamme, ma solo numeri, cifre e menzogne, siamo certamente più deboli e soli, ma senza possibili compromessi, lucidi come mai prima d’ora.


Se solo nella casa in fiamme diventa visibile il problema architettonico fondamentale, allora puoi ora vedere la posta in gioco nella vicenda dell’Occidente, che cosa essa ha cercato a ogni costo di cogliere e perché non poteva che fallire.


È come se il potere cercasse di afferrare a ogni costo la nuda vita che ha prodotto e, tuttavia, per quanto si sforzi di appropriarsene e controllarla con ogni possibile dispositivo, non più soltanto poliziesco, ma anche medico e tecnologico, essa non potrà che sfuggirgli, perché è per definizione inafferrabile. Governare la nuda vita è la follia del nostro tempo. Uomini ridotti alla loro pura esistenza biologica non sono più umani, governo degli uomini e governo delle cose coincidono.


L’altra casa, quella che non potrò mai abitare, ma che è la mia vera casa, l’altra vita, quella che non ho vissuto mentre credevo di viverla, l’altra lingua, che compitavo sillaba per sillaba senza mai riuscire a parlarla – così mie che non potrò mai averle…


Quando pensiero e linguaggio si dividono, si crede di poter parlare dimenticando che si sta parlando. Poesia e filosofia, mentre dicono qualcosa, non dimenticano che stanno dicendo, ricordano il linguaggio. Se ci si ricorda del linguaggio, se non si dimentica che possiamo parlare, allora siamo più liberi, non siamo costretti alle cose e alle regole. Il linguaggio non è uno strumento, è il nostro volto, l’aperto in cui siamo.


Il volto è la cosa più umana, l’uomo ha un volto e non semplicemente un muso o una faccia, perché dimora nell’aperto, perché nel suo volto si espone e comunica. Per questo il volto è il luogo della politica. Il nostro tempo impolitico non vuole vedere il proprio volto, lo tiene a distanza, lo maschera e copre. Non devono esserci più volti, ma solo numeri e cifre. Anche il tiranno è senza volto.


Sentirsi vivere: essere affetti dalla propria sensibilità, essere delicatamente consegnati al proprio gesto senza poterlo assumere né evitare. Sentirmi vivere mi rende la vita possibile, fossi anche chiuso in una gabbia. E nulla è così reale come questa possibilità.


Negli anni a venire ci saranno solo monaci e delinquenti. E, tuttavia, non è possibile farsi semplicemente da parte, credere di potersi trar fuori dalle macerie del mondo che ci è crollato intorno. Perché il crollo ci riguarda e ci apostrofa, siamo anche noi soltanto una di quelle macerie. E dovremo imparare cautamente a usarle nel modo più giusto, senza farci notare.


Invecchiare: «crescere solo nelle radici, non più nei rami». Sprofondare nelle radici, senza più fiori né foglie. O, piuttosto, come una farfalla ebbra svolare su ciò che è stato vissuto. Ci sono ancora rami e fiori nel passato. E se ne può fare ancora miele.


Il viso è in Dio, ma le ossa sono atee. Fuori, tutto ci spinge verso Dio; dentro, l’ostinato, beffardo ateismo dello scheletro.


Che l’anima e il corpo siano indissolubilmente congiunti – questo è spirituale. Lo spirito non è un terzo fra l’anima e il corpo: è soltanto la loro inerme, meravigliosa coincidenza. La vita biologica è un’astrazione ed è questa astrazione che si pretende di governare e curare.


Per noi da soli non ci può essere salvezza: c’è salvezza perché ci sono altri. E questo non per ragioni morali, perché io dovrei agire per il loro bene. Soltanto perché non sono solo c’è salvezza: posso salvarmi solo come uno fra tanti, come altro fra gli altri. Da solo – questa è la speciale verità della solitudine – non ho bisogno di salvezza, sono anzi propriamente insalvabile. La salvezza è la dimensione che si apre perché non sono solo, perché c’è pluralità e moltitudine. Dio, incarnandosi, ha cessato di essere unico, è diventato un uomo fra tanti. Per questo il cristianesimo ha dovuto legarsi alla storia e seguirne fino in fondo le sorti – e quando la storia, come oggi sembra avvenire, si spegne e decade, anche il cristianesimo si avvicina al suo tramonto. La sua insanabile contraddizione è che esso cercava, nella storia e attraverso la storia, una salvezza al di là della storia e quando questa finisce, il terreno gli manca sotto i piedi. La chiesa era in realtà solidale non della salvezza, ma della storia della salvezza e poiché cercava la salvezza attraverso la storia, non poteva che finire nella salute. E quando il momento è venuto, non ha esitato a sacrificare alla salute la salvezza.
Occorre strappare la salvezza dal suo contesto storico, trovare una pluralità non storica, una pluralità come via di uscita dalla storia.


Uscire da un luogo o da una situazione senza entrare in altri territori, lasciare un’identità e un nome senza assumerne altri.


Verso il presente si può solo regredire, mentre nel passato si procede diritto. Ciò che chiamiamo passato non è che la nostra lunga regressione verso il presente. Separarci dal nostro passato è la prima risorsa del potere.


Quel che ci libera dal peso è il respiro. Nel respiro non abbiamo più peso, siamo spinti come in volo al di là della forza di gravità.


Dovremo imparare da capo a giudicare, ma con un giudizio che non punisce né premia, non assolve né condanna. Un atto senza scopo, che sottrae l’esistenza a ogni finalità, necessariamente ingiusta e falsa. Solo un’interruzione, un istante in bilico fra il tempo e l’eterno, in cui balena appena l’immagine di una vita senza fine né progetti, senza nome né memoria – per questo salva, non nell’eternità, ma in una «specie di eternità». Un giudizio senza criteri prestabiliti e, tuttavia, proprio per questo politico, perché restituisce la vita alla sua naturalezza.


Sentire e sentirsi, sensazione e autoaffezione sono contemporanei. In ogni sensazione c’è un sentirsi sentire, in ogni sensazione di sé un sentire altro, un’amicizia e un volto.


La realtà è il velo attraverso cui percepiamo il possibile, ciò che possiamo o non possiamo fare.


Saper riconoscere quali dei nostri desideri infantili sono stati esauditi non è facile. E, soprattutto, se la parte dell’esaudito che confina con l’inesaudibile sia sufficiente a farci accettare di continuare a vivere. Si ha paura della morte perché la parte dei desideri inesauditi è cresciuta senza possibile misura.


«I bufali e i cavalli hanno quattro zampe: ecco ciò che io chiamo Cielo. Mettere la cavezza ai cavalli, perforare le narici del bufalo: ecco ciò che chiamo umano. Per questo dico: bada che l’umano non distrugga il Cielo dentro di te, bada che l’intenzionale non distrugga il celeste».


Resta, nella casa che brucia, la lingua. Non la lingua, ma le immemorabili, preistoriche, deboli forze che la custodiscono e ricordano, la filosofia e la poesia. E che cosa custodiscono, che cosa ricordano della lingua? Non questa o quella proposizione significante, non questo o quell’articolo di fede o di malafede. Piuttosto, il fatto stesso che vi è linguaggio, che senza nome siamo aperti nel nome e in questo aperto, in un gesto, in un volto siamo inconoscibili e esposti.


La poesia, la parola è la sola cosa che ci è rimasta di quando non sapevamo ancora parlare, un canto oscuro dentro la lingua, un dialetto o un idioma che non riusciamo a intendere pienamente, ma che non possiamo fare a meno di ascoltare – anche se la casa brucia, anche se nella loro lingua che brucia gli uomini continuano a parlare a vanvera.


Ma c’è una lingua della filosofia, come c’è una lingua della poesia? Come la poesia, la filosofia dimora integralmente nel linguaggio e solo il modo di questa dimora la distingue dalla poesia. Due tensioni nel campo della lingua, che s’incrociano in un punto per poi instancabilmente separarsi. E chiunque dice una parola giusta, una semplice, sorgiva parola dimora in questa tensione.


Chi si accorge che la casa brucia, può essere spinto a guardare i suoi simili che sembrano non accorgersene con disdegno e disprezzo. Eppure non saranno proprio questi uomini che non vedono e non pensano i lemuri cui dovrai rendere conto nell’ultimo giorno? Accorgersi che la casa brucia non t’innalza al di sopra degli altri: al contrario, è con loro che dovrai scambiare un ultimo sguardo quando le fiamme si faranno più vicine. Che cosa potrai dire per giustificare la tua pretesa coscienza a questi uomini così inconsapevoli da sembrare quasi innocenti?


Nella casa che brucia continui a fare quello che facevi prima – ma non puoi non vedere quello che ora le fiamme ti mostrano a nudo. Qualcosa è cambiato, non in quello che fai, ma nel modo in cui lo lasci andare nel mondo. Una poesia scritta nella casa che brucia è più giusta e più vera, perché nessuno potrà ascoltarla, perché nulla assicura che possa scampare alle fiamme. Ma se, per un caso, essa trova un lettore, allora questi non potrà in nessun modo sottrarsi all’apostrofe che lo chiama da quell’inerme, inspiegabile, sommesso vocìo.
Può dire la verità solo chi non ha nessuna probabilità di essere ascoltato, solo chi parla da una casa che intorno a lui le fiamme stanno implacabilmente consumando.


L’uomo oggi scompare, come un viso di sabbia cancellato sul bagnasciuga. Ma ciò che ne prende il posto non ha più un mondo, è solo una nuda vita muta e senza storia, in balia dei calcoli del potere e della scienza. Forse è però soltanto a partire da questo scempio che qualcos’altro potrà un giorno lentamente o bruscamente apparire – non un dio, certo, ma nemmeno un altro uomo – un nuovo animale, forse, un’anima altrimenti vivente…


5 ottobre 2020
Giorgio Agamben