Massimo De Carolis, La minaccia del contagio

La minaccia del contagio, di Massimo De Carolis

Ora che la tempesta mediatica sul coronavirus comincia a placarsi, lasciando trasparire almeno qualche dato ragionevolmente certo, mentre l’intero territorio nazionale è sottoposto a un regime di eccezionalità mai sperimentato fino ad ora, si può forse azzardare qualche considerazione sull’intreccio tra il piano biologico e quello politico dell’emergenza in corso, senza temere di mescolare i due livelli e di contribuire così alla confusione generale.
Il primo dato che non sembra contestabile è il ritmo esponenziale con cui aumentano ricoverati e morti, raddoppiando di numero ogni due o tre giorni. Il contagio epidemico insomma non è un’illusione, ma un dato reale, che potrebbe saturare le capacità del nostro sistema ospedaliero nel giro di un paio di settimane, con conseguenze sociali drammatiche in regioni come la Campania o la Sicilia, in cui l’assalto ai presidi sanitari è già un fenomeno frequente, per cause molto più futili.
Un dato invece molto più rassicurante, anche se non del tutto certo, è che il numero di persone che hanno contratto il virus con sintomi lievi possa essere molto più alto di quanto risulti dai controlli effettivi. È possibile insomma che il virus sia meno letale e il “picco” di riduzione dei contagi più vicino di quanto si possa temere, come del resto confermano i dati positivi dalla Cina. Si può quindi sperare che l’epidemia si esaurisca, alla fine, senza mietere i milioni di morti della spagnola o dell’asiatica.
Ovviamente, la speranza è rafforzata dalla maggiore efficienza, rispetto al passato, delle tecnologie e dei sistemi sanitari. Più difficile è, invece, misurare l’utilità effettiva delle misure politiche adottate. L’impressione comunque è che si ispirino a un principio non privo di buonsenso. In astratto, se nelle prossime tre settimane nessuno, in Italia, si avvicinasse mai a nessun altro (se, per assurdo, mogli e mariti smettessero di dormire assieme, i genitori non accarezzassero più i figli e i medici non si avvicinassero ai pazienti), il contagio diventerebbe impossibile e l’emergenza sparirebbe. Le misure di governo sembrano avere lo scopo di avvicinarsi il più possibile a questo ideale. Il loro obiettivo è, se non cancellare la vita sociale, quanto meno sospenderla fino a nuovo ordine, incanalando la comunicazione nei meccanismi a distanza dei social network e dello smart working. Giusto o sbagliato che sia, il ragionamento sembra condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione, che si sta adattando alle nuove regole con zelo sorprendente. Forse non tutti si spingono a considerare “criminali” e “irresponsabili” i ragazzi che, nonostante tutto, si riuniscono per festeggiare un compleanno o gli anziani che si ostinano a bere il caffè al bar. Ma di certo, al momento, l’obbedienza alle regole è rafforzata dalla riprovazione sociale che colpisce con severità i trasgressori. Esigere perciò un’attenuazione o persino una revoca delle misure sarebbe, al momento, un esercizio futile e impopolare, tanto più che nessuno sembra disporre di ricette alternative. Resta il dato di fatto, però, che si tratta di misure inquietanti, che polverizzano il legame sociale e impongono all’intera popolazione un regime di solitudine e controllo poliziesco fin troppo simile alle esperienze più buie del passato politico recente. La questione cruciale perciò è capire se si tratta davvero e solo di una semplice parentesi, o se stiamo assistendo a una prova generale di quella che potrebbe diventare la condizione di vita ordinaria nella società del prossimo futuro.
Il dubbio è giustificato dal fatto che la distruzione del legame sociale e l’ossessività del controllo in nome della “salute pubblica” non nascono certo col coronavirus. È da almeno un secolo che i meccanismi sociali moderni tendono a generare una società basata sull’isolamento, in cui la spontaneità della vita sociale è percepita come un intralcio o persino una minaccia alla stabilità del sistema. Il punto è che, in passato, il sistema produttivo non poteva fare a meno di corpi, voci e mani che operassero assieme: poteva limitare e controllare la promiscuità ma non eliminarla del tutto. Oggi invece possiamo, grazie alle meraviglie della tecnologia. Per la prima volta quindi, per quanto suoni paradossale, la macchina che riproduce la società può disfarsi del tutto della socialità squisitamente umana, senza pagare un prezzo troppo alto. Cosa ci garantisce, allora, che non si stia attrezzando a questo passo?
Per evitare malintesi, chiariamo subito che a sciogliere il dubbio non sarà in nessun caso un complotto, una Spectre o una qualche personificazione più o meno occulta del Potere. I fenomeni sociali non hanno una regia, ma sono il frutto di un numero indeterminato di forze e di spinte indipendenti. Non ci sono burattinai, ma solo burattini che spingono il teatrino, ognuno a suo modo, con più o meno forza, in una direzione o nell’altra, spesso a dispetto delle proprie intenzioni consapevoli. Quando l’epidemia sarà finita, ci sarà sicuramente un ritorno festoso alla socialità, che nessun governo democratico si sognerà di proibire. Di sicuro però molte aziende decideranno che il ricorso allo smart working è in fondo conveniente, e chiederanno ai dipendenti di non smantellare le postazioni di emergenza tirate su alla meglio in camera da letto. Molti benpensanti noteranno che la chiusura dei locali di movida è un vantaggio per la sicurezza pubblica, purché non leda gli interessi dei ristoratori e del turismo. E di sicuro molte forze politiche “identitarie” ci ricorderanno che i contagi, in genere, allignano in particolar modo tra barboni e immigrati (anche se disgraziatamente non in questo caso) e che la salute pubblica richiede un’igiene inflessibile. Più in generale, tutti noi scopriremo che, in ultima analisi, non c’è vita sociale che non comporti un rischio di contagio, come non c’è vita organica che non rischi la malattia e la morte. E ci troveremo perciò di fronte a un interrogativo politico basilare: fino a che punto siamo disposti a mettere a repentaglio, sia pure in forma minima, la nostra sicurezza biologica per cenare con un amico, per abbracciare un bambino o semplicemente per chiacchierare con gli sfaccendati che tirano tardi in piazza? Dove collochiamo l’asticella a partire dalla quale la nostra felicità sociale diventa per noi prioritaria rispetto alla salvaguardia della salute? E l’esistenza politica più importante della sopravvivenza biologica?
È un bene che il coronavirus ci costringa da un giorno all’altro a porci simili interrogativi, perché dalla risposta che daremo nei fatti (e non solo a parole) potrebbe dipendere l’assetto della società futura.

11 marzo 2020