Alessandro Barbero, Il pasto di mezzogiorno o il pasto più importante?

Il pasto di mezzogiorno o il pasto più importante?
di Alessandro Barbero

Il nome di un pasto può essere legato sia al suo orario, sia alla sua consistenza. Oggi nella coscienza dei parlanti sembrerebbe prevalere decisamente l’orario: conversando con due storici inglesi, entrambi mi hanno confermato che per loro un pasto consumato all’una non può che chiamarsi lunch, anche se è formale e prolungato. Nel XVIII e XIX secolo termini come dîner, dinner e pranzo portano invece con sé la connotazione, molto forte, di pasto principale della giornata. Bisogna tener conto che all’epoca chi poteva permetterselo mangiava, e beveva, enormemente di più di quanto non si usi oggi; ma il soprappiù era quasi tutto concentrato nel pranzo, che non comprendeva mai, neppure nella piccola borghesia, meno di quattro o cinque piatti, di cui almeno due di carne. Chi desiderasse una conferma può andare a vedere i menu («Note di pranzi») con cui Pellegrino Artusi conclude la sua Scienza in cucina (1891); si tratta, beninteso, di pranzi con invitati, ma chiariscono comunque quali fossero le abitudini della borghesia – i piatti di carne, in ciascuno di questi menu, sono almeno tre se non quattro, un lesso, un umido, un fritto e un arrosto. E non si trattava della prassi di una ristretta élite, giacché l’autore, nella prefazione alla trentacinquesima edizione, si vanta di aver già venduto 283.000 copie del suo libro.
L’idea che ci fosse un pasto nettamente più importante degli altri spiega come mai molti avessero addirittura l’abitudine di non cenare affatto. Federico il Grande, che pranzava «alle dodici precise», in tarda età aveva smesso di cenare, anche se non di invitare a cena: quando gli ospiti, alle dieci, si mettevano a tavola, lui si ritirava e andava a letto. Kant, secondo De Quincey, si alzava al mattino presto, prendeva diverse tazze di tè e lavorava senza mangiare nulla fino al pranzo, che cominciava all’una e quando c’erano ospiti poteva durare anche fino alle quattro o alle cinque; il filosofo poi andava a letto presto e non cenava più. Secondo il suo segretario, Buffon pranzava alle due e «c’était son seul repas» (ma in una lettera del 1776 lo scienziato invita a pranzo un conoscente «à midi ou midi et demi»). Lo stesso Goldoni, a Parigi, intorno al 1787, trova normalissimo incentrare la giornata su un unico vero pasto:

«M’alzo alle nove della mattina, fo colazione con ottima cioccolata… Lavoro fino a mezzogiorno, passeggio fino alle due… Desino spesso fuori… Dopo pranzo non mi piace lavorare né passeggiare. A volte vo al teatro, e più spesso faccio la partita fino alle nove di sera; rientro però a casa prima delle dieci, e prendo due o tre cioccolatini con un bicchier di vino annacquato: questa è la mia cena».

Spostandoci a oriente di qualche migliaio di chilometri, anche il protagonista dei Fatti d’altri tempi nel distretto di Pošechon’je di Saltykov-Ščedrin, Vasilij Porfiryč, che nella provincia russa intorno al 1820 continua a vivere come ai vecchi tempi, «mangia una sola volta al giorno ed esige che il pasto sia servito alle due precise». Quella di non cenare è, beninteso, un’abitudine individuale: fino ai primi anni dell’Ottocento nella letteratura e nei diari la cena è menzionata quasi altrettanto spesso del pranzo; è però sempre evi dente che si tratta d’un pasto meno sostanzioso. Perciò lo spostamento degli orari del pranzo, di cui parleremo, non va confuso con un semplice mutamento nella terminologia, ma comporta una diversa collocazione oraria del pasto più importante, intorno a cui tutta la giornata si articola, e con essa la stessa percezione del tempo: espressioni come «l’après-dîné» o «nel dopopranzo» erano comunemente usate per dire «nel pomeriggio».