Alessandro Boffa, Volevano che diventassi qualcuno, cioè qualcun altro

Volevano che diventassi qualcuno, cioè qualcun altro
di Alessandro Boffa

Ho sempre desiderato, da grande, di fare il fannullone. I miei eroi erano i pensionati, i portinai, i bagnini. Le mie ambizioni però andavano oltre. Volevo scoprire il segreto dei letarghi di undici mesi di certe rane australiane, delle ventidue ore di sonno dei Koala, dei decenni di catalessi dei tardigradi. Convinto che i guai dell’uomo fossero cominciati con la posizione eretta, avevo deciso di occuparmi di animali e diventare un biologo. Ero però finito in una delle tante organizzazioni gerarchiche della mia specie, un laboratorio in cui si lavorava dodici ore al giorno, compresi i sabati, si squartavano rospi, si raccontavano barzellette sul benzene. Me la sono squagliata.
Così sono arrivato in California, ma anche lì mi è toccato fare lavori faticosissimi e mal pagati: il cameriere, l’imbianchino, vendemmiare uva. Poi finalmente ho trovato un’occupazione più riposante (a misura d’uomo): la cavia umana in certi esperimenti farmacologici. Non so se fosse per via dell’effetto di quelle pasticche sperimentali, ma le californiane hanno cominciato a mostrare interesse per me. Mi caricavano sulle loro Ford Mustang, per avermi erano disposte anche a pagare. Sono finito, semicosciente, a recitare nei film porno, ogni notte mi ubriacavo di Tequila.
Che razza di uomo ero diventato? Stanco, svuotato, mi lasciavo amare da una seguace di una setta che si faceva chiamare “I guerrieri di Gesù”, ma che voleva redimermi e prometteva di portarmi a Hollywood, dove conosceva un tale che avrebbe potuto farmi diventare qualcuno, cioè qualcun altro. Ma una sera la polizia ha trovato della coca nella sua auto e lei ha incolpato me. Non sono finito in galera, credo, solo perché avevo con me un vangelo, venivo da Roma e dicevo di conoscere il Papa. Il sogno americano non faceva per me. Me la sono squagliata.
Spaparanzato sul divano, ho capito che l’unica occupazione che mi poteva permettere di restarci era quella del pensatore. Ma cosa pensare? Non volevo fare lunghi lavori di ricerca e così ho cominciato a fare dei pensieri sul pensiero stesso. Ma dopo cinque anni di quella vita ero distrutto, calvo e diabetico. Ho trovato un volo come corriere per Hong Kong e ancora una volta me la sono squagliata. (Avrei dovuto fermarmi in Asia due settimane, ci sono rimasto dodici anni).
La filosofia della “non azione” faceva davvero al caso mio. E così iniziato una carriera di non attore facendomi prendere a calci dagli attori cinesi nei film d’azione, poi, ammaccato, ho preferito seguire il consiglio di Confucio: per prosperare, diceva, basta “assumere un atteggiamento rispettoso, sedendosi rivolti verso sud”. Con una “agenzia di viaggi” che metteva merci di contrabbando nelle valigie sono volato in Thailandia, nel “paradiso degli uomini”.
A Bangkok gli angeli erano piuttosto numerosi e ben disposti a soddisfare ogni capriccio del pigro uomo bianco: lavarlo, massaggiarlo, imboccarlo, amarlo eccetera. Da quelle parti, mi spiegavano, solo le sgualdrine non si fanno pagare: il costo dipendeva dalla durata dell’abbonamento. Fatta una botta di calcoli ho capito che mi conveniva sposarmi. Ho trovato una moglie a buon mercato, una cuoca che si chiamava Janphet Tongpanchiwa “Diamanteluna Doratocomelavita”. Ma dopo qualche mese mi sono imbattuto nel marito di mia moglie, un thailandese, che a sua volta aveva una seconda moglie, che doveva mantenere i suoi amanti, che a loro volta… Ho rivisto i miei calcoli. Ho cominciato a frequentare una ballerina a go-go, con un nome che suggeriva economia: E.

Non c’è niente di male, mi dicevo, qui le spogliarelliste sono opere d’arte, sacerdotesse, tramite con il divino. Ma una sera, con me legato al letto di un albergo a ore, E è scappata con i miei soldi e i miei vestiti. Ho attraversato la città indossando un lenzuolo. Scalzo, rapato a zero la gente mi scambiava per un monaco, mi offriva riso, incenso e verdi boccioli di loto. Era un segno.
Poco dopo sono entrato in convento, nella pagoda “del Completamente Sveglio”. Respirare è diventata la mia unica occupazione e mi ci sono specializzato, inventando una tecnica rivoluzionaria che mi permetteva di espirare inspirare al tempo stesso. Se solo fossi riuscita a brevettarla, pensavo, oltre che un santo sarei diventato un miliardario. Ma così non è stato e ho preferito seguire allora le orme di un vecchio monaco birmano, ex commerciante di pietre preziose, che aveva l’abitudine di regalare rubini ai suoi discepoli, non a caso piuttosto numerosi. Forse, ripercorrendo le strade della sua vita, mi dicevo, troverò anch’io una fede, o magari farò abbastanza soldi per poterne fare a meno. Ma dopo due anni non avevo fatto una lira e l’unica fede che intravedevo era un anello matrimoniale. “Vuoi che facciamo un figlio?” mi diceva la mia promessa sposa. “Sì, ma anche no” avevo fatto io. Era una buddista zen e pensavo che quel genere di risposte le dovesse piacere. Ma non era così.
Mi ha mollato proprio lì, nel bel mezzo del golfo del Siam. Quando mai avrei trovato pace? Mi sono guardato intorno e ho scoperto che l’isola in cui stavo in realtà non era poi tanto male. Era un posto tranquillo, non c’erano strade, nell’aria volvano rondoni e buceri, sulla spiaggia giocavano topaie e macachi granchiaioli. Per ammazzare il tempo ho cominciato a frequentare Mr Khan, un sicario in pensione, che mi aveva preso in simpatia e mi aveva proposto di gestire qualche suo bungalow e un ristorante. Il lavoro consisteva nello stare sdraiato su un’amaca e controllare che gli altri lavorassero. Finalmente si ragionava. Ho accettato.
Avevo parecchi anni di sonno arretrato da smaltire e mi sono dato subito da fare. Di tanto in tanto nel dormiveglia dividevo l’amaca con una turista di passaggio. Non so dirvi se fossero vere o fossero sogni, perché ce n’era una che si chiamava Natascia, come il mio primo e unico grande amore, come lei aveva i boccoli biondi, gli occhi verdi, e ogni tratto del suo bel viso suggeriva coerenza e compassione. “Ti amerei” mi diceva, “se solo tu dormissi meno. Non vorrai mica che continuiamo a vivere di sogni”. Ma ogni volta che mi svegliavo lei non c’era più. Per far passare le lunghe, noiosissime ore di veglia che mi separavano da lei ho iniziato a scrivere un romanzo. Un romanzo senza esseri umani che comincia con la voce di un ghiro:
“Non c’è nulla di più deprimente della luce del sole, nulla di più fasullo della realtà. Per me ogni risveglio era un decesso, vivere era morire…”
Stranamente me lo hanno pubblicato. Forse è la pensione di invalidità che cercavo, Natascia, le ho detto, forse è la volta che ci lasceranno finalmente in pace, tesoro. Che il cielo me la mandi buona. Ma non troppo.