Beppe Viola, Ore 9: lezione di biliardo

Ore 9: lezione di biliardo
di Beppe Viola


Accadeva negli anni Cinquanta, verso le otto e un quarto del mattino. Milano non conosceva il fascino discreto del metrò, la Tv era un prodigio riservato ai milionari, l’impiegato non apprezzava ancora il tramezzino dietetico, i bar occupavano sale fumose rischiando la chiusura senza jolly, altrimenti detta ramino pokerato.
Appena il professor Rescalli entrava in aula, apriva il registro e controllava i presenti dicendo: «Oltre a Mazzarella e Viola chi manca oggi?». Mazzarella era precipitato giù dal tram numero 24 insieme col sottoscritto, facendosi regolarmente pizzicare dal sempre vigile occhio di quel nasone del «prof.». E gli studi dei compagni di scuola cominciavano senza il calore della nostra partecipazione, mentre Mazzarella e io, tolto il grande lenzuolo dal biliardo, ne ripulivamo il tappeto verde con sapienti spazzolate. Al «Vittorio Veneto» cominciavano le lezioni sul conto del Manzoni e noi, quattro fermate più in qua, cominciavamo quelle assai più produttive sulla carambola o sulla goriziana. Verso le nove e trenta il bar si animava col sopraggiungere di personaggi pittoreschi e cordialissimi, forse oggi definitivamente estinti dai cosiddetti progressi tecnologici. Tra i primi ad arrivare in pista, un panettiere insonne di nome «scimmia» per la singolare somiglianza con il nostro avo e un esattore dell’azienda elettrica municipale detto «scossa», che aveva già terminato le ricognizioni, casa per casa, sui contatori della cerchia dei Navigli. Gli altri, spettatori incalliti, erano puri comprimari, precursori generici degli attuali freelance, allora soprannominati disoccupati.
I tiri di riscaldamento indicavano lo stato di forma: colpo d’occhio, braccio fermo, intuizione pronta per scegliere la strada meno rischiosa e più proficua da far compiere alla cicca d’avorio. Era fondamentale la scelta della stecca. Per riconoscere un buon giocatore di biliardo è sufficiente osservarne l’atteggiamento nel momento in cui sceglie l’arma e la arricchisce col gesso azzurro. Se l’operazione viene condotta tenendo il gommino che sta alla base della stecca per terra siamo alle scuole elementari; se invece il tutto avviene senza appoggio, reggendo la stecca di traverso e facendola roteare mantenendo fermo il gesso, siamo davanti a un antico guerriero. Lo sguardo al gesso, la passata della stecca sul tappeto, il controllo della distanza tra un birillo e l’altro, il lancio a mano della biglia sui tre lati del tappeto per controllare la regolarità delle sponde, costituiscono altri piccoli e rilevanti segni di riconoscimento del giocatore. Poi, l’ultimo tocco, quello decisivo per sapere se uno col biliardo ci campa o fa campare il prossimo suo: la mano d’appoggio. Potrei scommettere la paga di un mese su quest’ultimo rilievo. Mostratemi come uno stende la sinistra sul tappeto e vi dico la categoria a cui appartiene. Sono costretto a una piccola digressione: c’era un tale, il signor Tironi, parrucchiere per signora dalle parti di Porta Vittoria, che giocava meglio con una mano sola che con due. Si faceva dare i punti di vantaggio dagli avversari e pare abbia perso soltanto una volta in vita sua. Accadde semplicemente perché aveva scommesso sull’avversario.
Si cominciava a giocare a pacchetto di sigarette, verso le nove e trenta. Un raddoppio dietro l’altro, si finiva per sbattersi in faccia qualche centone verso le tredici quando suonava il campanello dell’uscita da scuola. Si imparava molto in quelle ore: filosofia, storia, educazione civile e altre materie indispensabili per non comprare un orologio d’oro per mille lire. Il bar educa, altro che storie. Il biliardo è il mezzo per qualificare le presenze. Le partite Mazzarella-Viola contro «scossa-scimmia» erano autentici spettacoli d’arte varia, contemplando, oltre a una robusta dose di arabeschi tecnici, anche una sottile guerriglia psicologica e culturale. Il mio compagno era un borghese molto su, ma tradiva il benessere così vistosamente da creare nei nostri avversari complessi d’inferiorità. I due malcapitati si imbelvivano in misura tale da costituire per noi un enorme vantaggio. Nei momenti chiave della partita, bastava che Mazzarella dicesse ad alta voce «Mio padre mi ha regalato un’altra 600» per far tremare la mano al «scimmia», il meno glaciale dal punto di vista nervoso. Nel gioco della stecca la percentuale di fortuna incide assai relativamente nel corso di una partita, è pressoché nulla nell’arco di quattro ore. Ma è fondamentale, invece, lo sfruttamento psicologico di un colpo fortunato. È sufficiente qualche parolina provocatoria pronunciata al momento di raccogliere i birilli per decuplicare in chiave psicologica il valore numerico del risultato. «Toh, oggi non sbaglio un colpo» è una delle formule più volgarmente diffuse nell’ambiente quando si lascia intendere agli avversari di possedere qualità divinatorie. Così si vive il biliardo, anzi si viveva, perché gli anni Cinquanta sono scomparsi, il Mazzarella costruisce prefabbricati in Brasile, i professori come il Rescalli non si trovano più. Forse sono tutti a giocare al biliardo.