Cesare Garboli, Io e famiglia, Giovanni Pascoli

Io e famiglia, Giovanni Pascoli
di Cesare Garboli

L’“io” di Pascoli non è mai solo, è sempre in famiglia, inseparabile dalla famiglia, attaccato e incollato all’istituto famigliare come la cozza allo scoglio e l’embrione all’utero. Se non ci fossero i famigliari – il pensiero e il ricordo della tragedia famigliare –, il Pascoli darebbe a se stesso, al proprio segreto, alle proprie viscere, poca o nessuna importanza: questo aspetto di Narciso, l’interesse autobiografico e lo studio rivolto al proprio “io”, di tipo petrarchesco, o, per stare più al moderno, di tipo proustiano (il tipo, per intenderci, «Solo il mio cor piaceami»), non definisce il Pascoli, e, in fondo, non gli appartiene. Questa morbidezza, questa complicità gli sono estranee. La puerilità pascoliana è di segno diverso; la tana, la sopravvivenza della tana non è il proprio io, è la famiglia. E se non c’è di mezzo la famiglia, il Pascoli non parla volentieri di sé; se lo fa, lo fa in termini di laboratorio, funzionali all’oggetto sotto il torchio, come nelle Rane o nella Mia sera. La psicologia pascoliana è più antica, più ruvida di quanto non si pensi comunemente. Tuttavia, la voracità dell’esperienza famigliare, e quindi la connotazione quasi interamente famigliare dell’io, non è meno singolare dell’occasionalità, della casualità, del disordine, dell’eruzione sempre traumatica con cui l’io famigliare si manifesta. Eccezione sorprendente, nella produzione di un poeta che tende sempre al ciclo, il tema famigliare non si organizza – se non nel Ritorno a San Mauro, dove il ritorno al grembo è un ritorno al paese, e l’io famigliare altri non è che un io infantile, o un’identità perduta. La correlazione, così stretta, così palese, tra la propria identità e un trauma famigliare diventato un’idea coatta, sembra al Pascoli ignota: questa correlazione non lo interessa, l’idea coatta è “normale”. Si dia un’occhiata anche superficiale alla totalità della produzione pascoliana, si guardi all’asse che la divide. Ci sono in Pascoli due cantieri attivi in permanenza, corrispondenti a due tipi di produzione contigui: uno intimo, privato, autobiografico, “lirico” (dicono a scuola), insomma il Pascoli myriceo e garfagnino, il grande artigiano delle piccole emozioni dell’«Ultima passeggiata», di «Creature», di «In campagna», e delle piccole e grandi dei Canti di Castelvecchio. Ad esso si affianca, non meno operosa, l’industria che sforna prodotti di marca più professionale, istituzionale, epico-ellenistici e epico-romanzi. Chiamerò questa produzione “seriale”. Essa circoscrive il Pascoli dei Carmina, dei Conviviali, del romanzo di Rosa, delle tarde Canzoni bolognesi. In questo settore non c’è posto per l’autobiografia dichiarata. Ma anche sul versante myriceo e garfagnino, dove il Pascoli parla di sé (direttamente, con parole facili, o per metafora, con la nota novità del linguaggio regressivo), il posto dell’autobiografia è interamente occupato dal ricordo e dalla sopravvivenza della tragedia: a regnare sovrana è un’ossessione; l’io, l’identità e l’intimità dell’io, è solo una corrente derivata.