Dino Baldi, «De te fabula narratur»

«De te fabula narratur»
di Dino Baldi

Nei manuali di letteratura latina la Germania viene collocata fra le opere minori di Tacito, insieme all’Agricola e al Dialogus de oratoribus; eppure è l’opera maggiore, se si guarda al peso che ha avuto nella storia europea: su questo si troveranno alcune notizie nella sezione che tratta delle fortune del testo e nel commento. Il peso della Germania è tuttavia in gran parte scomodo e opprimente, perché il popolo, o per meglio dire l’insieme di popoli di cui Tacito sancisce per la prima volta lo statuto d’eccellenza fra i nemici di Roma, non ha mai smesso di creare attorno a sé movimenti di grandezza e di sfacelo, come un corpo estraneo e insieme indivisibile piantato nel mezzo dell’Europa (e questo almeno fino dal momento in cui l’esercito romano fu composto quasi esclusivamente di soldati germanici, e i Germani furono allo stesso tempo al servizio di Roma e suoi nemici, ospiti e invasori, privi di civiltà e portatori di una propria e peculiare).
Questo è il privilegio e la condanna di chi legge la Germania oggi: noi, a differenza di Tacito, sappiamo come andò a finire. Dei Goti ad esempio lui conosce soltanto «gli scudi rotondi, le spade corte e l’obbedienza ai re» (cap. 44), mentre noi sappiamo che nel 376 una parte di quel popolo distrusse ad Adrianopoli un intero esercito romano assieme all’imperatore Valente: la sconfitta peggiore, dice Ammiano (XXXI, 13, 19), dai tempi di Canne (e tanto più amara se si pensa che quei barbari avevano attraversato il Danubio per chiedere protezione contro gli Unni). Da lì cominciò la lunga marcia dei Visigoti dentro i confini dell’impero, che a ogni tappa chiudevano una porta dell’antico mondo e ne aprivano una nuova: a Eleusi con la distruzione del tempio di Demetra si concluse anche la celebrazione dei misteri che durava da duemila anni, e Roma fu presa e saccheggiata per la prima volta dopo ottocento anni. Racconta Orosio nelle Historiae adversus paganos (VII, 43) che Ataulfo, il re goto successore di Alarico, voleva in principio cancellare il nome di Roma dalla terra e fondare un regno barbarico del quale sarebbe stato il primo Cesare; ma ben presto arrivò a capire quello che i Romani sapevano da tempo: i Goti erano incapaci di ubbidire alle leggi, senza le quali lo Stato non è Stato. E dunque, non potendo passare alla storia come il creatore di un nuovo impero, si rassegnò a ripristinare il vecchio ormai sfinito, e sposò a Narbona nel 414 Galla Placidia, figlia di Teodosio e sorella di Onorio, con l’idea di creare una nuova dinastia romano-barbarica. Roma capta ferum victorem cepit: il re barbaro si presentò alla cerimonia vestito in foggia romana, fece sfilare di fronte alla nobilissima sposa cinquanta ragazzi in abiti di seta, ciascuno dei quali con in mano due vassoi, uno pieno d’oro e l’altro di pietre preziose, parte dei tesori del sacco di Roma, e si cantarono epitalami alla maniera classica, i Goti e i Romani insieme. Galla Placidia fu regina dei barbari per un solo anno; il loro figlio Teodosio, che sarebbe stato il primo erede di una dinastia imperiale di sangue misto, visse pochi mesi, e Ataulfo venne assassinato poco tempo dopo da un rivale del suo stesso popolo.
Questa storia, come tante altre che si potrebbero raccontare, dice qualcosa del rapporto di seduzione e di rifiuto che ci fu sin dal principio tra i Germani e Roma, del quale la Germania è la più antica e illustre testimonianza; si può anzi dire che proprio Tacito abbia contribuito e ancora contribuisca, per la sua parte, a mantenere aperta nel cuore dell’Europa una linea di frattura che a tempi alterni si allarga e si riduce (Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa è il titolo di un piccolo libro di Benedetto Croce uscito nel 1944). Eppure, la prima avvertenza da dare a un nuovo lettore della Germania è proprio questa: non si senta autorizzato a riconoscersi nei Romani più che nei barbari. Il credersi eredi dell’uno o dell’altro schieramento condiziona l’interpretazione di questo testo intrinsecamente ambiguo fin dal momento in cui fu riportato alla luce in epoca umanistica; ma continuare a farlo oggi sarebbe un errore ancora più ingenuo e grave. E questo non perché la Germania non parli di noi e della nostra storia, ma al contrario perché ne parla sempre: siamo sia i civilissimi Romani consapevoli all’eccesso della propria superiorità tecnica e culturale, sia i barbari efferati ed esuberanti che travolsero e calpestarono ciò che rimaneva del mondo antico. Lo siamo naturalmente in un senso primario ed essenziale, come già sapeva alla fine del IV secolo l’oratore Temistio («In ogni uomo c’è qualcosa di barbarico, di spietato e di sfrenato: dico la rabbia cieca, e le voglie insaziabili, che sono all’opposto della ragione», Discorso X, 131c), e ancora prima quel legionario della colonna Traiana che combatte tenendo fra i denti la testa mozzata di un Dace dimostra come non esista civiltà che non sia barbarie, al posto e al momento giusto. Ma soprattutto noi siamo barbari in un senso meno archetipico e più immediatamente vero. Le invasioni, si insegna ancora a scuola, danno il colpo di grazia a un impero oppresso dalla sua stessa grandezza; sono il suggello della decadenza, segnano l’inizio del Medioevo. Se però si cambia prospettiva, sono l’alba del rinascimento per popoli confinati e compressi all’interno di terre inospitali: sono migrazioni che preludono a una nuova fase della storia d’Europa, della quale fa parte anche chi vuole considerarsi orgogliosamente erede di Roma. La triangolazione dello sguardo è allora un esercizio che vale anche per chi legge questo libro oggi, e forse in un senso ancora più concreto e vero che per Tacito, essendo noi niente altro che il prodotto della sintesi (bene o mal riuscita? La linea di frattura è anche interiore) fra romanità, barbarie e cristianesimo (così come gli eredi dei Germani sono stati fino a ieri l’incarnazione della bestialità più sapiente e ordinata che il mondo occidentale abbia mai conosciuto). La Germania continua a parlarci perché racconta la nostra storia ed evoca la nostra parte di buio, è un modo per riconoscerci e per riappropriarci di ciò che siamo stati e che siamo ancora oggi: barbari e civili, familiari e odiosi a noi per primi. Il riconoscimento di questa complessità e delle contraddizioni che contiene è il primo passo, mi pare, verso l’unica forma possibile di civiltà europea.