A che cosa assomiglia essere morti?
La morte assomiglia moltissimo a certi momenti
vuoti in cui ci sentiamo improvvisamente tuffati durante
la vita. Ed M. si diverte a ricordarli:
a) alla remota, vasta, scintillante toilette di un aeroporto
straniero.
b) a certi negozietti di provincia alle tre di un pomeriggio
d’estate. Devi aspettare la coincidenza di un
treno, sei uscito dalla stazione, hai guardato la piazza
vuota, con un solo tassì fermo sotto al sole, ti sei
messo a camminare in un gran silenzio, eppoi in una
piccola viuzza carica d’ombra hai visto una vetrina di
un negozio qualunque, diciamo di elettrodomestici, e
dentro in un angolo c’era una ragazza né bella né
brutta, e tu sei entrato…
c) ti risvegli di notte perché il treno si è fermato.
Che silenzio! Dove sei? Fuori è buio pesto, si ode
solo un rumore metallico, ad intervalli, leggerissimo,
sotto le viscere del treno, qualche molla che si raffredda,
una nota vibrata, appena percettibile. I compagni
di viaggio dormono, sono ombre confuse con
la tappezzeria del sedile di fronte.
d) apri gli occhi di colpo dopo un breve sonno. A
pochi centimetri da te c’è la faccia sconosciuta della
puttana che un’ora prima ti ha portato in quella bieca
stanza a fare l’amore.
Momento di allegria sfrenata: davvero è morto?
Ormai è fatta, non può capitargli più nulla di così estremo. Il grande varco è passato? Sì, è passato. In
fondo non è successo nulla di così terribile, non è
stato troppo difficile, non è stato nemmeno troppo
doloroso; anzi non se n’è proprio accorto. Tenta con
mezzi pateticamente umani di scoprire come ci si
possa sistemare in questa nuova dimensione per «vivere
bene», farsi amici, intrallazzare, ottenere raccomandazioni.
E adesso non si morirà più? Ora quest’idea
lo angoscia spaventosamente.