I cani del Sinai
di Franco Fortini
Guardo da questa collina uno spazio di cielo, di montagne
e di mare. Queste linee mi sono più familiari delle vie della
città dove sono nato e di quella dove vivo. Venti o trent’anni
hanno modificato quelle scene e me in esse. Tutto mi pare
ora più piccolo, come più premuto. Lo spettacolo delle stagioni
è già troppo veloce. Veramente non so più vincere il fastidio
delle apparenze se non dimenticandolo nella gradevole
illusione di interesse che il lavoro riesce ancora a provocare.
La tentazione di credere unica realtà la forma e unica forma
la parola, l’invito alla calma del distacco: non sono mai stati
forti come ora. Ma anche più forte la resistenza e non mi
rassegnerò.
Sorvolando città in aereo o traversandole con i treni di notte,
si sa che accade di pensare ai conoscenti o amici in quelle,
nei loro lavori o nel sonno o nella consumazione qualsiasi
della loro vita. Di qua mi pare di poterne scorgere molti: quasi
tutti in una o altra forma ubbidienti a quello che ancora
chiamiamo destino e che è solo il nome di volgari potenze,
di violenze che potremmo arrestare, di cicatrici dimenticate.
Dalla pianura viene il rumore confuso delle diecimila auto in
corsa sulle vie del litorale e della campagna, il lampo di un
vetro in una curva fa specchio, un clacson più acuto. Il senso
dello spreco. Della infelicità. Della pietà, finalmente. Perché
quel ronzio, quei lampi, quegli acuti di clacson sono quasi
le voci o i segni di gente che conosci, che non chiami amici
perché non lo sono ma che si sono incontrati con la tua vita
e sapevano o sanno quel che tu sai, hanno voluto o vogliono
qualcosa di non molto diverso da quel che vuoi tu, anzi tu
non sei in nulla diverso da loro.
Due estremità mi sono certe: l’avvenire del mondo umano,
almeno dalla mia a qualche altra generazione; e la mia sorte individuale.
Questa è una fine qualsiasi di una biografia che non
aspetta da se stessa, come ha fatto finora, se non verità indirette;
quello è il conflitto tutto spiegato e lungo, non davvero
finale ma conclusivo di un’era, per il comunismo mondiale. E
in quello – che per varietà e violenza eversiva avrà bisogno di
tutte le forze che dal passato muovono verso quel fine – troverà
luogo anche il minimo segno tracciato da coloro che in
questa estate europea senza speranza né onore usano, gravati
da un incerto fastidio o da una rabbia inutile, dell’intelligenza
e dalla passione residue e ripetono le due o tre verità senza
fine che si sono illuminate per essi nel momento più alto o più
basso della loro esistenza.
Ma tutto il resto, fra questo corpo e l’avvenire, è oscurità
e caos. Non vorrei dire nulla sull’immediato domani. I segni
sono contraddittori. Il nostro lavoro non ha luogo. Non tutto,
ma molto può accadere. E poi non ho più voglia di spiare
quel che accadrà ma solo di fare quel che posso ora per ora.
Se la parola rivoluzione non fosse quasi ridicola per l’abuso,
bisognerebbe dire che oggi l’azione rivoluzionaria ha da essere
anche più riformista del riformista, apparentemente miope,
dedita a piccole opere certe, a fabbricare diamanti o selci
artificiali e micidiali, a sabotare minutamente, a distruggere
con pazienza ma fino a terra: la talpa, di cui hanno parlato i
classici. Solo in questa prospettiva posso giustificare ai miei
occhi queste pagine, di apparente polemica immediata e di apparente
autobiografia. I cani del Sinai non sono soltanto quei
miei connazionali europei che hanno sfogato il loro odio per
il diverso e il contrario (ieri gli ebrei, oggi gli arabi, domani il
cinese, il sudamericano, qualunque «rosso»): sono anche metafora
ironica dei nostri più vicini e goffi nemici, quelli che
latrano in difesa delle tavole d’una legge che nessun dio ha mai
dato e che nessuno sa più decifrare, tanto è lorda di vecchia
strage. Attirarsi qualche latrato o qualche morso, è cosa davvero
di nessun momento, senza merito né demerito. Bisogna
voler ben altro; e anzitutto credere, come Lenin diceva, che ad
ogni situazione esiste una via d’uscita e la possibilità di trovarla.
E cioè che la verità esiste, assoluta nella sua relatività.