Gabriele Neri, Suburbia

Suburbia
di Gabriele Neri



Mentre nei centri urbani la vita correva in verticale alla velocità degli ascensori, fuori dalle città americane per tutto il Novecento è fiorita Suburbia, la città orizzontale dei sobborghi fatti di abitazioni unifamiliari con back yard, posto auto e optional variabili in base alla fascia di reddito. Opposta negli assunti ma perfettamente complementare all’urbanistica intensiva del grattacielo – come a dire: posso sopportare una giornata di lavoro in una caotica downtown ma solo con la promessa di tornare a casa in una villetta col giardino – la città infinita delle villette a schiera è un fenomeno urbanistico e immobiliare che caratterizza numerosi contesti geografici, a cominciare dai paesi anglosassoni. Tra questi, gli Stati Uniti si offrono ancora come contesto paradigmatico per osservarne gli aspetti più contraddittori attraverso gli occhi della satira. In America infatti fattori come la disponibilità di terreno, una certa cultura anti-urbana – di cui la Broadacre City di Frank Lloyd Wright è stata una delle teorizzazioni più alte – e la preferenza per i mezzi di trasporto privati hanno favorito la diffusione capillare di svariate declinazioni di Suburbia, dalle città giardino di stampo anglosassone a successi di real estate come Levittown; dai villaggi ispirati al New Urbanism fino alle più recenti gated communities. Se a un’analisi attenta questa fenomenologia appare estremamente eterogenea, nel complesso l’immagine stereotipata dello sprawl suburbano è stata spesso riassunta in alcuni tratti somatici costanti: la separazione netta dalla vita dei centri metropolitani; l’uniformità e la banalità dei modelli abitativi e architettonici; l’omologazione sociologica come causa ed effetto di un simile principio di aggregazione ecc.




Robert J. Day, «The New Yorker», 13 novembre 1954.


Il periodo sul quale conviene soffermarsi è il secondo dopoguerra, quando leggi speciali e scelte politiche mirate contribuirono in maniera decisiva alla formazione di enclaves suburbane con caratteri ben definiti. L’Housing Act del 1949, ad esempio, diede un forte impulso alla realizzazione di quartieri residenziali suburbani scoraggiando l’ibridazione di funzioni diverse secondo la logica dello zoning, mentre ad aumentare l’omogeneità di questi insediamenti, che presentavano decine o centinaia di case unifamiliari pressoché identiche ci pensarono precise politiche di neighborhood stability o neighborhood charactering orientate all’omogeneità etnica, di età e di reddito, con il fine di prevenire eventuali rivolte tra gruppi etnici diversi e di preservare il valore immobiliare.
I cartoons che dipingono l’omogeneità, la ripetitività e la monotonia dei nuovi quartieri sono innumerevoli, e si concentrano tra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta, ma continuano, data la persistenza del fenomeno, fino ai giorni nostri. Le scene sono quasi sempre le stesse: file infinite di abitazioni unifamiliari con fazzoletto di terreno annesso, uguali anche nei dettagli più minuti e non solo architettonici. In una vignetta di Claude Smith (1913-2003), ad esempio, anche gli alberi si adeguano all’uniformità del costruito, germogliando tutti lo stesso giorno alla stessa ora oppure – in un altro disegno di Charles Addams (1912-1988) – spezzandosi in simultanea durante un temporale. E allora, in questo mondo ripetitivo e prevedibile, suona beffarda la frase dell’agente immobiliare che suggerisce ai clienti: «Vi consiglio di comprare adesso che avete la possibilità di scegliere» davanti a una distesa di case fatte con lo stampino. L’urlo di disperazione dell’uomo suburbano, naufragato in un mondo individualista ma privato di ogni individualità, sarà lanciato da Robert J. Day nel 1954 in una vignetta dove una signora, giunta alle soglie del suo quartiere, chiede al postino: «Dove abito?».