Germano Celant, Design all’italiana

Design all’italiana
di Germano Celant

Uscita dalla seconda guerra mondiale con un territorio devastato e spezzato, sia dal punto di vista concreto e ambientale che culturale e ideologico, dal 1945 l’Italia cerca di ricomporsi e di ricostruirsi a partire dalle rovine e dai frammenti, proponendo dei rimedi che, seppur inadeguati all’ampiezza e alla mostruosità della tragedia e dell’orrore attraversati, possano servire a creare un’alternativa di vita. A parte il rimarginare delle ferite politiche e fisiche, il tentativo di riqualificazione passa attraverso la ricostruzione industriale. Questa, basata sulla ragione della macchina e del suo procedere funzionale alla produzione, inevitabilmente si porta dietro un’attitudine progressiva e razionale, connessa a una condizione pragmatica ed essenziale del fare. Di conseguenza, il passaggio dall’artigianato, connesso al fatto a mano, a un produrre in serie con una perdita di singolarità della «cosa» immessa sul mercato, quanto con una definitiva caduta del ruolo autonomo dell’artefice, con la relativa separazione tra arte pura e arte applicata, quale era stata professata da tutte le avanguardie storiche, dal futurismo italiano al produttivismo russo, dal neoplasticismo olandese al Bauhaus tedesco. Si sviluppa allora il concetto di «design», che si nutre di un pensiero rivolto all’utile rispetto all’inutile – nell’ambito della funzione, del mestiere e della diffusione mercantile ed economica – della scultura e della pittura.
Il momento successivo a tale antitesi si costituisce con l’identificazione del valore intellettuale, quindi ideologico, di un prodotto industriale che inizia a veicolare un fine e uno scopo, subordinato al valore sociale ed economico, quello indotto come reazione all’uscita dalle macerie, indice di caos e di distruzione. La cosa disegnata in serie si propone quale risposta utile alla messa in ordine e alla prospettiva di una nuova vitalità economica del paese. Transito da una cultura contadina a una cultura industriale che trova valore e significato nella tecnologia e nelle macchine, che, rispetto alla naturalità, inducono l’artificiosità quanto la cosmesi generalizzata rispetto all’apparenza reale. Si afferma lo stile quale esigenza di comunicazione per immagini in ragione del consumo e del mercato, il valore di scambio viene soppiantato dal valore d’uso.
E siccome la comprensione di un oggetto è visuale quanto mentale, la comunicabilità della sua rappresentazione è legata al suo aspetto che è determinato da una qualche «ragione» di funzionamento, quanto appetibilità che passa attraverso un progettare razionale. Da qui, la sua dipendenza da una attitudine «razionalista» che avviata, con Giuseppe Pagano, Edoardo Persico e Giuseppe Terragni a partire dagli anni Trenta in Italia, come controparte del monumentalismo nazional-fascista, informa l’estetico e l’ideologico del design. Quello di un pensiero purificatore e riflessivo che, a partire dal 1945, esalta la condizione cognitiva dell’uso rispetto alla sua iconografia: un procedere che si nutre di consenso per arrivare a sedurre i consumatori che, con il tempo, devono diventare masse. Azzeramento di qualsiasi fanatismo immaginario, quello legato al mito della velocità e dell’impero, dell’aggressione e della ricchezza che è riflesso di un’ideologia volgare e populista, oramai considerata esecrabile e inconcepibile a favore di una indotta coscienza dello strumento, ideale ed essenziale, con cui agire nel mondo. Il design proposto dagli anni Cinquanta in Italia, attraverso il progettare che va da Corradino d’Ascanio a Dante Giacosa, da Marcello Nizzoli a Franco Albini, da Vico Magistretti a Marco Zanuso, è portatore di un gusto conciliato e armonizzato con la sensibilità della nuova borghesia che aspira al bello non conflittuale né sperimentale, così da salvaguardare i valori formali, severi e primari non alternativi all’immaginario capitalistico, promosso da Olivetti e Fiat, Brionvega e Pirelli, Candy e Augusta.
Tale periodo di severità connessa alla forma entra in crisi quando negli anni Sessanta la venerazione verso la sublimazione degli oggetti si scopre essere veicolo e strumento di consenso e di consumo generalizzato. Anche in relazione a uno spirito di ribellione e di dissenso che si sviluppa a partire dal 1966, l’asse del gusto volge al disgusto perché esemplare di un andare controcorrente alle richieste del sentire dominante. Essenzialmente, una conseguenza dei sentimenti radicali e antimercantili sviluppati da una generazione che si illude di ridurre il peso della mercificazione a favore delle creatività e dell’artisticità. Di fatto, un’utopia che non distrugge né altera l’esistente, ma allarga solo il mercato con l’aggiunta della componente low e volgare, quella promossa dalle tendenze artistiche dal nouveaux réalisme europeo alla pop art americana. Ponendo il pubblico dinnanzi a una valanga di cose o di immagini del comunicare – che nell’arco di pochi lustri sono diventate disegnate a caso per funzioni sconosciute – questi artisti hanno diretto lo sguardo all’appiattimento produttivo che ha oltrepassato ogni limite della banalità formale e funzionale. Se questo è vero, è necessaria l’apertura di nuovi orizzonti di progettazione e di fruizione che non sia servile, ma contrastante e si nutra di provocazione e di scandalo, almeno «apparenti». All’indifferenza e all’anonimato dell’oggetto impersonale e generalizzato, perché spogliato di qualsiasi connotato identitario, sia quale forma che come colore così che rientri nel flusso indistinto del fiume dei prodotti familiari. Il risultato è qualcosa di inusuale e di indecifrabile, molto avanguardistico che dimostra una vaga continuità con la funzione deputata per esaltare la sua articolazione meravigliante e sorprendente. Un insieme che in una costellazione di materie e di colori assomma tutte le possibili totalità antinomiche e negative rispetto al formalismo e al razionalismo della progettazione anni Cinquanta.