Germano Celant, Per una critica acritica

Per una critica acritica
di Germano Celant

Se l’arte ritorna a essere una fonte di magia e d’incanto elementare naturale, se si mescola ai deserti, alle rocce, alla neve, alle reazioni fisiche e biologiche, se tende ad esaltarle la scoperta di un vivere primordiale in cui mente e corpo, concetto e natura, abbiano importanza massima, se si mimetizza con gli elementi naturali e mentali, sino ad annullarsi allo stato puro nella natura e nel concetto, come sembrano dimostrare le ultime ricerche definite o Land Art o Arte Povera o Conceptual Art, la teoria e la critica d’arte non hanno più bisogno di giudicare o interpretare, di leggere o sostenere un fenomeno, l’arte, che non ha più necessità di esplicazione e giustificazione, ma solo di una partecipazione sensoriale e mentale.
L’arte contemporanea in questo momento chiede di essere lasciata in pace, non vuole essere ridotta a parole o a letture critiche, non vuole intervenire o offrire una lettura del mondo, non si pone in chiave moralistica, non accetta di essere addomesticata secondo una visione univoca e unisensa, rifiuta le incrostazioni interpretative, solo preoccupata di verificare nuovamente la sua intenzionalità eco-bio-logica, e si offre solo nella sua naturalità magico-mentale. Commentarla significa modificarla, offrirla in chiave deformata e deformante, compiere un servizio repressivo e reazionario, che ne muta l’uso e la funzione. Che tipo di teoria o critica d’arte si può allora tentare oggi? Quali possono risultare gli strumenti di cui la critica d’arte contemporanea può servirsi senza compiere una violenza linguistica, per intervenire come complice, nel divenire del lavoro artistico contemporaneo? Esiste una possibilità di una critica acritica?
Su queste domande si stanno formulando diverse soluzioni critiche che però partono dal comune presupposto di un tentativo non più a giudicare o a criticare l’opera d’arte, ma a viverla od esperirla, a conservarla o raccoglierla. La ricerca critica sembra ora interessata a precisare, non tanto il suo potere giudicante, che la rende una «critica pettegola», quanto le sue possibilità in rapporto dialettico con il lavoro artistico, attraverso tutti gli strumenti in suo possesso.
La critica non vuole più offrire ricette rassicuranti, con cui levigare gradatamente le punte estreme dei movimenti contemporanei, non è tesa a compilare ricette «digestive» per il grande pubblico impreparato ed ignorante i fatti artistici, vuole piuttosto esporsi come azione storica o come evento, in divenire con il lavoro artistico.
Il critico, come l’artista, non sembra credere più nel moralismo del suo oggetto, sia esso fonico o scritto, ma credere nell’estrema moralità del proprio fare ed agire, giunge spesso ad annullarsi nel fattuale, per abilitare e sensibilizzare la ricettività dell’individuo (sia esso uno o cento non importa), concede sempre meno alla spiegazione e all’attenzione critica, si dimostra sprezzante per la marea di «cronachisti» d’arte, prezzolati da gallerie o giornali o strumenti di informazione, e tende a far parlare il suo lavoro così come si offre, come azione conservativo-storica dei documenti e come evento. Il lavoro critico acquista così una diversa dimensione operativa, più che giudicare o stabilire, stendere pettegolezzi o giudizi, diventa complice, si istituisce come vita parallela ed autonoma non artistica, rispetto alla produzione in arte.