Luigi Ghirri, Non è venuta come vedevo

Non è venuta come vedevo
di Luigi Ghirri


Tenete presente che una fotografia appare sempre diversa da quello che si vede nella realtà. Non è solo più chiara o più scura: non registra le correzioni che il nostro sguardo abitualmente mette in atto. C’è una rigidità che è propria della macchina. Allora il fotografo, per restituire la complessità di quello che vede, deve sopperire a questa rigidità della macchina, che ha una gamma di possibilità di risposta molto ampia ma non certo costante, lineare e automatica come quella dell’occhio umano.
Tra quello che si vede nella realtà e ciò che appare in una fotografia c’è sempre, dunque, uno scarto. Intanto c’è una variazione di scala, la differenza di proporzione è uno dei dati fondamentali. Le lenti, così come rendono possibile la visione di cose che a occhio nudo non potremmo vedere, ci danno la possibilità di rimpicciolire la realtà. Altre differenze fondamentali riguardano il materiale utilizzato: la fotografia non è tridimensionale, i colori che vediamo in essa non sono quelli naturali.
Esistono insomma molti elementi di scrittura, interni alla fotografia, che possono condurre a esiti scoraggianti e magari farci dire «non è venuta come volevo». Dovremmo piuttosto dire: «Non è venuta come vedevo». È chiaro che «farla venire come vediamo» implica innanzitutto un processo di avvicinamento, di approssimazione. Tutte le operazioni successive saranno poi finalizzate a cercare di trasmettere meglio, a ridurre lo scarto tra quello che vediamo e quello che, parzialmente, vedremo nella fotografia. È questa la direzione, non la ricerca di una fotocopia della realtà. La fotografia, come la scrittura, ha una sua ambiguità, un suo lessico, una sua logica interna, un suo ritmo, tutti valori che non appartengono a una fotocopia.