Come ho avuto modo di dire, ho rovesciato il cannocchiale, cioè non guardo più dalla città, come forse
era necessario fare allora, ma parto invece dal territorio, e considero la città e tutti gli insediamenti urbani e tradizionali come casi particolari in una visione più
ampia, che è quella del territorio.
Ho compiuto, anche insieme al Laboratorio Internazionale di Architettura e Urbanistica, una serie di osservazioni che spero mi portino a capire un’ipotesi sulla quale si potrà continuare a lavorare.
Parto dalla sottile infrastruttura del territorio che già esiste, stratificata nei secoli, in parte cancellata, interrotta o dimenticata, ma ancora congruente.
Intendo l’infrastruttura attraverso cui si manifesta il territorio, nella sua forma, nella sua natura, nella sua bellezza, anche: le strade tracciate come componenti del paesaggio, che rispettano la natura e il suolo, che hanno la capacità di dare esperienza, che spiegano il territorio, non strade come sistemi per portare nel minor tempo possibile le automobili da un punto all’altro; i ponti, localizzati con sensibilità; le torri di avvistamento; i corsi d’acqua che dividono o collegano o,
incanalati, producono energia; i difetti del suolo, della vegetazione; i piccoli insediamenti abitati che sono suscettibili di accogliere sviluppi purché perfettamente commisurati alle esigenze dell’uomo; gli edifici religiosi, anche sconsacrati; le coltivazioni che sono legate a un sistema generale di organizzazione della forma del paesaggio, in cui le combinazioni hanno un senso e sono state pensate con capacità di comunicazione e rappresentazione.
Il territorio ha un disegno che rappresenta una cultura.
Chi può immaginare che sia stato fatto in modo casuale, che definendo quest’immagine non si sia seguita una concezione del mondo?
Non vale la pena cercare di capire qualcosa di quest’ipotesi, cominciare a tentarla e a esplorarla con
una lettura acuta e intelligente e anche con delle «progettazioni tentative»? Vogliamo continuare ancora nella degenerazione di alcuni principî che in fondo hanno dimostrato di essere esauriti, o invece vogliamo aprire nuovi varchi?
C
apisco che gli architetti abbiano paura di farlo, capisco che le facoltà di architettura non siano preparate a un cambiamento, capisco che non esista una cultura strutturata e organizzata cui fare riferimento, e che non arrivino incoraggiamenti dalla politica, dall’economia, dalla sociologia ecc., però capisco anche che questa è una via di uscita che val la pena di esplorare altrimenti sarà difficile vivere, perché il territorio non riesce più a resistere ai metodi e alle azioni che gli sono state proposte finora.
Perciò io credo che dalla cultura architettonica potrebbero partire le esplorazioni per il cambiamento.
Grazie.