Gianni Celati, Traversate nel deserto

“Quanto deserto vi è su questo pianeta che ci ospita non l’avevo mai saputo prima, l’avevo soltanto letto: né mai avevo saputo fino a qual punto tutto ciò di cui viviamo sia il dono d’una piccola oasi, inverosimile come la grazia” (Max Frisch, Stiller).

Da questa folgorante intuizione annotata da Max Frisch, alla mareggiata che recentemente ha investito il litorale adriatico, facendoci scoprire che trenta o quaranta chilometri di costa, devastati dal turismo e dalle speculazioni, sono un puro deserto senza ripari – tra queste due illuminazioni c’è un filo di pensiero che, se sviluppato, porta a vedere il deserto sulla soglia di ogni luogo abitato, e ci porta anche a vedere il carattere illusorio d’ogni addomesticamento del pianeta.
Questo filo di pensiero dice anche che noi non siamo i padroni del pianeta, né lo siamo mai stati, benché questa sia la nostra convinzione più profonda – e ci dice che la nostra dimora è comunque sempre precaria, benché lo sforzo totalitario delle società moderne consista nel far scordare agli uomini la precarietà della loro presenza – e ci dice infine che, in questa tarda fine d’epoca, non c’è nessun lavoro di ricerca con qualche autenticità, senza riferimenti all’emblema del deserto. Perché è il deserto che alla fine poeti e fotografi, narratori e filosofi, hanno sempre di fronte, quando mandano richiami verso il mondo.
È questo un emblema non solo della nostra miseria epocale, ma anche, insieme, dell’enorme sforzo immaginativo che è richiesto a ogni attraversamento dello spazio, del vuoto, del deserto. Perché nel vuoto miseria e immaginazione si riconoscono e si danno la mano, non si negano a vicenda; ed avremo allora deserti che sono immagini di pienezza – la grazia della piccola oasi sullo sfondo di sabbia fino all’orizzonte, la parola ritrovata per mezzo del silenzio, gli uomini come piante, le ere mitiche come paesaggio quotidiano, e il vento volatore che attraversa la valle.
Ma quando miseria e immaginazione, deserto e pienezza, parole e silenzio, vengono forzatamente separati (per operare “chiare ripartizioni” come vogliono gli esperti) è allora che inizia la devastazione senza ripari – nelle teste, nei terreni, nell’aria, nelle acque.
La miseria incosciente comincia allora a prendere se stessa per ricchezza. Comincia a sostituire l’immaginazione con surrogati rappresentativi, dove il deserto e il vuoto sono negati man mano che cresce la desertificazione del mondo, e cresce l’esposizione ad una grande precarietà – come sul litorale adriatico.
E, grazie a tanta incoscienza, man mano che la precarietà non è più ricordata come qualità originaria della nostra dimora terrestre, ma pensata invece come insufficienza rimediabile, in proporzione perde valore “l’inverosimile grazia della piccola oasi” di cui parla Max Frisch – perché l’inverosimile grazia viene data per scontata come il funzionamento d’una lavatrice.
Sono questi i segni di un’epoca in cui il deserto diventa sempre più il cammino da riprendere, la via da ritrovare, il silenzio da attraversare per poter ancora parlare con gli altri.
Negli scrittori e fotografi che presentiamo in questo libro, il deserto è questo cammino, la via del silenzio, la celebrazione della piccola oasi, la scoperta di qualche traccia baluginante, o accecante, o commovente, un fiore, un animale, un sasso, nell’indifferente deserto planetario – ciò che comunque, nelle nostre lingue, si chiamava Natura.