“Quanto deserto vi è su questo pianeta che ci ospita non l’avevo mai
saputo prima, l’avevo soltanto letto: né mai avevo saputo fino a qual
punto tutto ciò di cui viviamo sia il dono d’una piccola oasi, inverosimile
come la grazia” (Max Frisch, Stiller).
Da questa folgorante intuizione annotata da Max Frisch, alla mareggiata
che recentemente ha investito il litorale adriatico, facendoci scoprire
che trenta o quaranta chilometri di costa, devastati dal turismo e
dalle speculazioni, sono un puro deserto senza ripari – tra queste due
illuminazioni c’è un filo di pensiero che, se sviluppato, porta a vedere
il deserto sulla soglia di ogni luogo abitato, e ci porta anche a vedere il
carattere illusorio d’ogni addomesticamento del pianeta.
Questo filo di pensiero dice anche che noi non siamo i padroni del
pianeta, né lo siamo mai stati, benché questa sia la nostra convinzione
più profonda – e ci dice che la nostra dimora è comunque sempre precaria,
benché lo sforzo totalitario delle società moderne consista nel far scordare
agli uomini la precarietà della loro presenza – e ci dice infine che, in
questa tarda fine d’epoca, non c’è nessun lavoro di ricerca con qualche
autenticità, senza riferimenti all’emblema del deserto. Perché è il deserto
che alla fine poeti e fotografi, narratori e filosofi, hanno sempre di fronte,
quando mandano richiami verso il mondo.
È questo un emblema non solo della nostra miseria epocale, ma
anche, insieme, dell’enorme sforzo immaginativo che è richiesto a ogni
attraversamento dello spazio, del vuoto, del deserto. Perché nel vuoto
miseria e immaginazione si riconoscono e si danno la mano, non si
negano a vicenda; ed avremo allora deserti che sono immagini di pienezza
– la grazia della piccola oasi sullo sfondo di sabbia fino all’orizzonte, la
parola ritrovata per mezzo del silenzio, gli uomini come piante, le ere
mitiche come paesaggio quotidiano, e il vento volatore che attraversa la
valle.
Ma quando miseria e immaginazione, deserto e pienezza, parole e
silenzio, vengono forzatamente separati (per operare “chiare ripartizioni”
come vogliono gli esperti) è allora che inizia la devastazione senza ripari –
nelle teste, nei terreni, nell’aria, nelle acque.
La miseria incosciente comincia allora a prendere se stessa per
ricchezza. Comincia a sostituire l’immaginazione con surrogati
rappresentativi, dove il deserto e il vuoto sono negati man mano che
cresce la desertificazione del mondo, e cresce l’esposizione ad una grande
precarietà – come sul litorale adriatico.
E, grazie a tanta incoscienza, man mano che la precarietà non è
più ricordata come qualità originaria della nostra dimora terrestre, ma
pensata invece come insufficienza rimediabile, in proporzione perde valore
“l’inverosimile grazia della piccola oasi” di cui parla Max Frisch – perché
l’inverosimile grazia viene data per scontata come il funzionamento d’una
lavatrice.
Sono questi i segni di un’epoca in cui il deserto diventa sempre più il
cammino da riprendere, la via da ritrovare, il silenzio da attraversare per
poter ancora parlare con gli altri.
Negli scrittori e fotografi che presentiamo in questo libro, il deserto è
questo cammino, la via del silenzio, la celebrazione della piccola oasi, la
scoperta di qualche traccia baluginante, o accecante, o commovente, un
fiore, un animale, un sasso, nell’indifferente deserto planetario – ciò che
comunque, nelle nostre lingue, si chiamava Natura.