Tommaso Giartosio, Un’occhiata ai cattivi: una nota su James Bond

Un’occhiata ai cattivi: una nota su James Bond
di Tommaso Giartosio


Fare critica culturale sull’agente 007 è come sparare sulla Croce Rossa. Ci ha già pensato Umberto Eco mezzo secolo fa. E con lui tanti altri. Poi la fine della guerra fredda, la crisi del maschio, e il succedersi di attori come Moore, Dalton e Brosnan che tutti insieme hanno più o meno la stessa carica sessuale di un cucumber sandwich, hanno fatto il resto. Oggi però si tenta il rilancio: si affida la regia di Skyfall, il nuovo capitolo della serie (2012), a un auteur onusto di Oscar come Sam Mendes (American beauty). Un artista saprà ben rinnovare il carrozzone allestito da Fleming. In fondo, con i supereroi la strategia ha funzionato! In effetti il film oltre a conquistare il pubblico seduce la critica: perfino quella progressista. Le recensioni, quasi sempre entusiaste, citano con approvazione sorniona la scena in cui Bond, prigioniero del malvagio Raoul Silva, ribatte così alla sua proposta di sesso gay: «E chi ti dice che è la mia prima volta?». M (il capo di Bond) è da tempo una donna. Ora Q (l’inventore dei suoi gadget) è un ragazzetto, Moneypenny è nera, e Bond è addirittura gay, o almeno bi. Cosa è successo? Non era un prodotto reazionario, Bond?
Chiariamolo subito: la visione del mondo del nuovo film è quella di tutta la serie. L’obiettivo dichiarato di Skyfall è proprio rilegittimarla. Dimostrare che regge ancora. Come sempre nel marketing, occorre saper innovare entro una ferrea fedeltà alla tradizione. Skyfall è un film ossessionato dal passato. Dai cinquant’anni di cinema su 007. Dall’invecchiamento di Bond e della sua stanca liturgia di feticci e comprimari. La vicenda serve proprio a provare che il mondo ha ancora bisogno di uno come lui. L’Occidente è tuttora esposto a complotti innumerevoli, crudeli e capziosi, imbastiti da stranieri: cinesi, latinos, un assortimento terroristico di non-WASP. Alcuni sono penetrati nelle nostre fila ordinate, altri stanno annidati nel loro lusso barbarico o nei loro deserti (tra cui una ghost town industriale del Mar della Cina: l’allegoria economica è di facile lettura). Le nostre istituzioni democratiche, spiace dirlo, sono gestite da anime belle inconsapevoli della minaccia. Per fortuna ci sono i custodi segreti della libertà, i guerrieri freddi e devoti che agiscono nell’ombra. Gente che adora Churchill e recita con passione l’Ulisse di Tennyson, un caposaldo dell’imperialismo britannico ottocentesco. Gente che dispone di tecnologie avanzate, ma al momento cruciale ricorre alle vecchie maniere, in primis alla forza fisica…
Dilungarsi sarebbe insultare l’intelligenza di chi legge. Ma il punto è che Bond non soddisfa (e alimenta) soltanto le paure sociali. Ci sono anche le ansie private. 007 è un grande fenomeno di risarcimento psicologico, e di virilità ne offre in abbondanza: nella sua versione solitaria, promiscua, violenta. Ora, sul pubblico di Bond si è esercitata una sociologia del disprezzo. Moralistica e soprattutto meccanica. Nulla vieta che un membro di Maschile Plurale si conceda una degustazione ironica e trash di James Bond. E quando alla fine di Skyfall dai posti dei maschietti parte (giuro!) la standing ovation, non sai se si tratti di un orgasmo d’identificazione oppure del sollievo per quelle luci in sala che li restituiscono a una mascolinità meno rigida e più praticabile. Ma nell’una o nell’altra ipotesi, c’entrerà anche la breve scena gay? Possibile che Bond sia riuscito dove il queer ha fallito?
Mendes, Craig, e lo sceneggiatore gay John Logan (Il gladiatore) affermano di aver solo esplicitato una carica omoerotica che c’era già in tutti i film della serie. È vero. Una virilità come quella di Bond è gay anche quando è etero. Ricorda irresistibilmente un certo tipo di stile gay: indiretto e allusivo, intensamente corporeo, sempre a caccia di brevi incontri con altri uomini. Dunque un Bond gay ci sta tutto, e non è strano che faccia il suo mezzo coming out con una frasetta ambigua, negoziando una situazione di cattura e minaccia. Una frase che configura un gay del «sono fatti privati», del rapporto occasionale e costretto. O, nel migliore dei casi, una frase che ricorda l’ammissione di bisessualità di Pecoraro Scanio, di cui Vendola disse: «Sono quelle cose che si dicevano a sedici anni, così, per fiutare un po’ l’aria». Ecco la gayezza sdoganata da Skyfall: un po’ poco! Ma c’è di molto peggio.
È il Silva di Javier Bardem – non il Bond di Craig – la vera novità di Skyfall: perché nessuno ne parla? Per valutare la reale forza innovativa delle opere di genere, basta dare un’occhiata ai cattivi. (Con i buoni, è molto più facile per l’autore confondere le acque.) Nel ciclo di 007 i cattivi sono sempre stati gemelli rivali dell’eroe, per un evidente principio di compensazione. Raffinati, signorili, violenti, circondati di pin-up: come Bond. Ma con un eccesso che li rendeva melliflui, morbosi, striduli, e assassini delle loro donne. Questo eccesso che conferma la norma distorcendola significava la loro omosessualità. Ma non si poteva mostrarla. Ora si può. E di questo nuovo contratto con lo spettatore è vittima prima di tutto Silva. Se Bond ora è visibilmente e timidamente gay, Silva non ha più l’aplomb dei cattivi di un tempo, con il gatto persiano in braccio: è sfacciatamente, istrionicamente frocio. E per questo va punito. In una scena cruciale scopriamo che è mostruosamente sfigurato. Per giunta il buon Logan (che lavoraccio, quello dello sceneggiatore gay!) deve confezionargli un romanzetto famigliare patogeno, completo di Edipo irrisolto e rapporto ossessivo con la figura materna. Silva è il prezzo che paghiamo per avere… ben poco: il nuovo Bond. Skyfall è un film che vuole compiacere sia il bisogno di sentirsi moderni e gay-friendly sia le tenaci, brutali remore di sempre. Se riflette la nostra opinione pubblica, accanto alle leggine semiegualitarie (se verranno) dobbiamo aspettarci un incremento dell’onda omofobica. Del resto è già in atto.

(novembre 2012)