Gilles Deleuze, La pietà

La pietà
Di Gilles Deleuze

Pietà per la carne macellata! La carne macellata è senza alcun dubbio l’oggetto eminente della pietà di Bacon, il suo unico oggetto di pietà, la sua pietà di anglo-irlandese. E, su questo punto, Bacon è come Soutine, con la sua immensa pietà di ebreo. La carne macellata non è carne morta, essa ha conservato tutte le sofferenze e ha preso su di sé tutti i colori della carne viva. Tanto dolore convulso e vulnerabilità, ma anche affascinante invenzione, colore e acrobazia. Bacon non dice «pietà per le bestie», ma ogni uomo che soffre è carne macellata. La carne macellata è la zona comune all’uomo e alla bestia, la loro zona di indiscernibilità; essa è quel «fatto», quel particolare stato in cui il pittore si identifica con l’oggetto del proprio orrore e della propria compassione. Il pittore è un macellaio, certo, ma egli sta nella sua macelleria come in una chiesa, con la carne macellata come Crocifisso (Painting, 1946). Soltanto nelle macerie Bacon è un pittore religioso. «Le immagini dei mattatoi e di carne macellata mi hanno sempre molto colpito. Mi sembrano direttamente legate alla Crocifissione […]. Che altro siamo, se non potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria, mi meraviglio sempre di non esserci io appeso lì, al posto dell’animale». Alla fine del XVIII secolo, il romanziere Moritz descrive un personaggio dai «bizzarri sentimenti»: un’estrema sensazione di isolamento, di inconsistenza molto vicina al nulla; l’orrore di un supplizio, quando egli assiste all’esecuzione di quattro uomini, «sterminati e dilaniati»; i brandelli di questi uomini «gettati sulla ruota» o sulla balaustra; la certezza che la cosa ci riguarda da vicino, che ognuno di noi è carne macellata gettata via, e che lo spettatore è già nello spettacolo, «ammasso di carne ambulante»; di qui l’idea viva che gli stessi animali siano uomini, e che noi siamo criminali o bestiame; e inoltre quella fascinazione verso l’animale che muore, «un vitello, la testa, gli occhi, il muso, le narici […] e talora era così assorto nella contemplazione della bestia, che credeva realmente di aver provato per un istante il tipo di esistenza di quell’essere […]; insomma, sapere se tra gli uomini egli fosse un cane o un altro animale, aveva occupato spesso i suoi pensieri sin dall’infanzia». Le pagine di Moritz sono splendide. Non si tratta di un adattamento dell’uomo alla bestia, né di una somiglianza, si tratta piuttosto di una identità di fondo, di una zona di indiscernibilità più profonda di qualsiasi identificazione sentimentale: l’uomo che soffre è una bestia, la bestia che soffre è un uomo. È questa la realtà del divenire. Quale uomo, rivoluzionario in arte, in politica, in religione o in qualsiasi altro campo, non ha avvertito il momento estremo in cui non era null’altro che una bestia, divenendo così responsabile, non dei vitelli che muoiono, ma davanti ai vitelli che muoiono?