Scrittori e corpo
di Matteo Marchesini
Dopo la dissoluzione degli ultimi robusti schemi ideologici, anche nella critica letteraria hanno vinto gli approcci tematici più brutali. Mentre i dipartimenti universitari pullulano di corsi su «l’isola nel romanzo del Novecento» o «gli appartamenti nella poesia moderna», l’editore Carocci sforna allegri tomi su animali, bicchieri o mutande «in letteratura». Ma a farla da padrone, in quasi tutti i generi, è un oggetto che non indica più soltanto un tema bensì un feticcio, una magica parola passepartout: il Corpo. Abbiamo filosofie del corpo (vedi Michela Marzano), antologie poetiche sul corpo (vedi Niva Lorenzini), e moltissimi pamphlet sulle membra dei capi politici o delle icone pop. Siamo sommersi da teorie che propongono pretestuosi collage di Bataille e Foucault, Artaud e Deleuze; ma anche da una lirica femminile, anzi femminea, che punta tutto su un miscuglio di spoglia ieraticità e di visceralità autoptica (da Mariangela Gualtieri a Elisa Biagini). Per artisti e intellettuali, il Corpo è diventato quel che un tempo era il Popolo: un mito che è anche il sintomo di un’impotenza, un idolo sotto cui risorge l’eterna velleità di trasformare il verbo in carne, la scrittura in gesto. Molti sembrano credere che sia sufficiente ripetere quelle due sillabe come un rosario, o zoomare di continuo su dettagli anatomici straniati, per realizzare una sorta di unità mistica con l’oggetto. Questo fenomeno trasversale diffonde sui più diversi generi letterari la stessa atmosfera, lo stesso fungibile velo di allegorie, simboli, emblemi. E così, nella mente del lettore, le suggestioni di Agamben e il bondage della Santacroce, gli studi su Gadda o Testori e le pièce della Raffaello Sanzio, finiscono per assumere la medesima consistenza insieme corpulenta ed eterea. Ma da dove viene questa retorica che è tanto meno evocativa quanto più vorrebbe essere teatralmente “selvaggia”, che è tanto più neutra e farraginosa quanto più vorrebbe apparire frontale, scandalosa, “ferita”? Almeno in parte, dipende da un riutilizzo bovaristico delle ultime esperienze moderniste: il Negativo, l’oltranza, l’esibizionismo (e)scatologico del Novecento, si riducono a un mix di scolastica e orfismo. Ma questo accade un po’ per tutti i temi. In più, il Corpo ha il vantaggio di alludere a questioni che appaiono di scottante attualità: sembra cioè consentire un’immediata indicizzazione culturale dei problemi che toccano la bioetica, la sessualità, la società dell’immagine. Non solo. Qui il Leitmotiv si presta a diventare subito il correlativo di uno stile, o meglio di una stilizzazione. Parlare del corpo, in molti casi, significa infatti “mimare” il corpo, spesso con meccanicità stucchevole: e dà sempre una certa ebbrezza accostare senza mediazioni, “alla francese”, l’intellettualismo più spinto e la più arresa ottusità descrittiva. Quanto più si fatica a stabilire un reale rapporto tra le esperienze di vita e l’elaborazione di una teoria o di un universo poetico, tanto più la retorica sul corpo induce a millantare questo rapporto, e quasi illude di poterlo creare. È questa concretezza corteggiata invano a ispirare l’incredibile mole di saggi critici che presentano le opere contemporanee come risultati “estremi”, e l’incredibile mole di testi che mettono in scena piccole crocifissioni private, classici riletti in chiave pulp, e monologhi maccheronici nati da cattive letture di Contini, di Sanguineti, o più prosaicamente di Tiziano Scarpa e di Aldo Nove. Questa snuff-letteratura riflette un vizio antico dei nostri chierici, sempre disposti a credere che basti qualche sommaria vivisezione estetica per vivisezionare sul serio la realtà più rugosa, per andare “oltre” e toccare soglie apocalittiche. In una parola, il Corpo è l’ultima Arcadia. «Quante rose a nascondere un abisso!», diceva Saba del suo cuore poetico. Quanti abissi a nascondere le rose!, potremmo ribattere noi oggi, di fronte a tutti questi tatuaggi culturali.