Kitsch
di Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone
Il Kitsch deve buona parte della propria complessità, ma forse anche della
sua fortuna, già al suo nome. Termine tedesco dai molteplici significati –
schizzo mal fatto, figura incompiuta, copia raffazzonata, degenerazione,
eccetera –, s’è preferito mantenerlo quasi sempre nella lingua originale,
senza comunque risolvere granché. Il Kitsch è come il tempo per Agostino
o, soprattutto, l’arte per Croce: sappiamo bene che cos’è, tranne quando
ci chiedono di definirlo. Il Kitsch è un’evidenza problematica. I termini
e i concetti evocati per definirlo costituiscono un pacchetto teorico
irregolare ma, alla fine, abbastanza coeso: arte degenerata, massificata,
inautentica e ripetitiva; pseudo-arte a buon mercato; simulazione della
bellezza, esaltazione del sentimentalismo per via del dilettantismo; celebrazione
indiscriminata del piacere estetico a detrimento della fattura
materiale dell’oggetto artistico; emergenza della volgarità e del male nelle
arti; arte a servizio dei regimi politici totalitari e della loro propaganda;
uso indiscriminato degli stilemi e degli stereotipi del passato e del canone;
contraffazione e simulazione; riduzione dell’opera a souvenir turistico
e a gadget; diffusione di un gusto medio e massificato; cattivo gusto o
totale mancanza di gusto. L’effetto che si ottiene mettendo in fila questi
concetti è curiosamente duplice. Da una parte, sembra che il Kitsch
abbia vinto, nel senso che la cultura contemporanea, la società attuale,
la nostra stessa vita quotidiana ne appaiono permeate sin nei più intimi
dettagli: la volgarità, la contraffazione, il sentimentalismo, l’autoritarismo,
il dilettantismo vanno per la maggiore. Dall’altra tutto questo
sa di passato, di polveroso, se si vuole di vintage. Siamo certi che oggi
sia possibile continuare a parlare di degenerazione dell’arte e di cattivo
Editoriale gusto, di massificazione e di serializzazione? Che cosa significano oggi
questi termini, quale funzione esplicativa conservano questi concetti,
che importanza hanno questi valori? Sembra di poter dire: se tutto è
Kitsch, allora nulla lo è; e se nulla vi si oppone, non è possibile delinearne
una reale fisionomia, una qualche identità. Più che in alcune proprietà
degli oggetti, il Kitsch finisce per risiedere nello sguardo di chi li osserva,
perdendosi nel più totale soggettivismo, nel relativismo deteriore, muto,
in cui tutto è uguale a tutto. La nozione di Kitsch, nata con l’ascesa della
cultura borghese e con l’ausilio dei media di massa, sembra aver perduto
molta della sua ragion d’essere.
Il panorama, rispetto a quello studiato dai suoi grandi teorici (Broch e
Benjamin, Greenberg e Dorfles, Moles e Eco, Sontag e Baudrillard, e tanti
altri qui raccolti nel volume attraverso i loro saggi sul tema), è oggi assai
diverso. Le arti e gli artisti sembrano sempre meno interessati alla fattura
tecnica delle opere e all’eventuale piacere del pubblico. Si occupano piuttosto,
in un mercato impazzito, e con una frequente ricerca della provocazione,
di questioni etico-politiche e sociali: ricchezze mal distribuite,
clima e ambiente, emigrazione, industria planetaria del cibo, diritti degli
animali e così via. In tal modo la questione del gusto (e del cattivo gusto)
s’è spostata dall’estetica filosofica all’analisi sociologica. Riaggregando i
due sensi storicamente separati del termine (alimentare ed estetico), il
gusto è divenuto, da Pierre Bourdieu in avanti, un segnalatore sociale e, di
conseguenza, un settore strategico del marketing. Il gusto produce piccole
comunità di consumatori che comprano gli stessi brand. Sia esso gusto
per la musica o per la gastronomia, per il cinema e per il vino. A sua volta,
la cultura di massa sembra essersi dissolta insieme alla centralità che, in
essa, avevano i media per tutti: stampa, radio, cinema e tivù indietreggiano
rispetto alla rete, ai new media, ai social network, contribuendo
alla creazione di una società sempre più parcellizzata, targettizzata, priva
di riferimenti valoriali, etici ed estetici, politici e antropologici di tipo
unitario. I criteri per strutturare la società, onde poterla meglio interpretare,
sono numerosissimi: e tutti pertinenti. Infine, l’affermazione del
pluriculturalismo su scala mondiale ha cancellato, non solo e non tanto
la centralità dell’Occidente tardo borghese, ma ogni riferimento etnico
assoluto: a prevalere è l’interculturalità, l’ibridazione costante di valori e
di gusti, la traduzione continua di linguaggi e di tendenze. Le migliaia di
corpi tatuati che invadono le nostre spiagge perseguono l’estetica maori,
le subculture carcerarie russe, le usanze marinare ottocentesche o, molto
semplicemente, sono Kitsch?
Che fare dunque? Due sembrano le strade possibili. La prima è quella
di archiviare il concetto nei meandri di una storiografia delle arti e della
civiltà, considerando il Kitsch come un semplice capitolo della storia
dell’estetica moderna o della cultura novecentesca. La seconda è quella
di tornare su questi problemi, riesaminarli, considerandoli ancora aperti,
importanti, utili a una più fine comprensione della contemporaneità.
[...]
In tal modo, il nostro obiettivo è stato quello di usare il Kitsch come
una specola per riesaminare l’attualità da un punto di vista rovesciato,
provando a capire che ne è di oggetti e fenomeni e tendenze come il gusto e
le arti, le emozioni e i media, la quotidianità e la comunicazione. In questo
senso, il problema del Kitsch ci pare ancor oggi il nostro problema. Probabilmente
a essere Kitsch oggi è quel che ieri era l’anti-Kitsch: la bellezza,
l’eternità dell’opera, la sua chiusura, il suo carattere rivoluzionario, l’imperativo
dell’originalità e altro ancora. Occorre tornarci su e per farlo, basta
avere la finezza che ogni gusto necessariamente richiede.