Nella concezione classica, l’azione politica vera e propria non si limita ad amministrare interessi e obiettivi comuni, ma
istituisce un genere di condivisione molto più profondo e, soprattutto, molto più radicato nell’assoluta unicità della condizione umana. I cittadini di una polis sono infatti chiamati a rispondere insieme (nella prassi e non solo a parole) alla più basilare delle domande esistenziali: come intendiamo vivere? Su quali priorità e valori intendiamo costruire l’esistenza collettiva? Quale forma è, per noi, la forma vera di una vita adeguata all’umanità dell’uomo? Questioni del genere, evidentemente, non avrebbero senso per nessuna delle altre specie viventi, quale che sia il loro grado di socialità naturale. Del leone, dell’ape o del lupo esiste un’unica forma di vita, un solo bios, depositato fin da principio nel corredo istintuale di ciascun individuo. La sola specie umana sembra invece segnata da un grado di duttilità e di contingenza talmente alto da rendere quanto meno legittimo il dubbio che «per il falegname e il calzolaio vi siano un’opera e un’attività, per l’uomo invece nessuna» (Aristotele). Nel nostro caso, insomma, la forma della vita è, almeno in parte, una questione aperta, un vuoto da colmare, che esige un genere di prassi collettiva del tutto speciale: quella che è in gioco, appunto, nella politica. È questo legame profondo con la natura umana che fa della polis, agli occhi di Aristotele, qualcosa di «naturale», benché la sua costituzione sia un frutto raro e tardivo nell’evoluzione storica. Gli uomini aspirano infatti «per natura» all’autodeterminazione, e una simile istanza non può trovare espressione che in una comunità perfetta, libera e autosufficiente, capace di darsi da sé la propria forma.
In Aristotele, e nel pensiero antico in generale, l’idea di una natura aperta e problematica della specie umana resta comunque appena un vago accenno. È solo nel mondo moderno che una simile intuizione antropologica acquista un peso filosofico e politico davvero decisivo. Un passo di Pico della Mirandola mostra, ad esempio, con grande efficacia letteraria fino a che punto la concezione moderna della «dignità dell’uomo» poggi fin da principio sull’idea di una natura umana intimamente indefinita e duttile:
«Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un aspetto proprio o un talento peculiare, perché avessi e possedessi secondo il tuo desiderio la dimora, l’aspetto e il talento che tu stesso avrai scelto. Per gli altri esseri, la natura è definita e come costretta entro le leggi che abbiamo loro prescritto. Nel tuo caso invece sarai tu, non costretto da alcuna limitazione, secondo il tuo arbitrio, nella cui mano ti ho posto, a tracciare i tuoi limiti. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché da lì potessi osservare più comodamente tutto ciò che è nel mondo».
Adamo qui figura come l’unico, tra i viventi, chiamato a disegnare da sé stesso la propria identità e a dare forma, in modo libero e creativo, alla propria vita e al proprio mondo. Qualche secolo dopo, Kant si richiamerà alla stessa concezione per aprire la strada al cosmopolitismo, ricordando che le azioni umane non si esauriscono nel semplice conseguimento di una qualche finalità più o meno utile, ma hanno il compito ben più profondo e sfuggente di «colmare il vuoto della creazione relativamente al loro scopo». E nell’antropologia filosofica tedesca del Novecento, infine, una simile concezione dell’umano si tradurrà in un programma di ricerca coerente e dettagliato.
Quanto più emerge in primo piano il carattere aperto e auto-poietico della natura umana, tanto più è logico che si radicalizzi anche l’indagine sulla comunità «ideale», capace di accollarsi nel modo più completo il compito di dare creativamente forma alla vita collettiva. È comprensibile perciò che, nella cultura moderna, si riproponga e si accentui la distinzione di rango tra la comunità perfetta (che vale ora come unico soggetto politico legittimo) e le forme parziali e imperfette di condivisione che possono proliferare al suo interno. La netta opposizione, in Hobbes e in altri autori, fra popolo e moltitudine, non solo ribadisce questa distinzione, ma circoscrive anche in modo più stretto l’idea di una comunità «perfetta», associando al criterio dell’autosufficienza, già previsto da Aristotele, quello dell’omogeneità. Il «popolo» è ora fonte di sovranità legittima solo se è in grado di parlare con una sola voce, agire come una persona sola e fondere le sue differenze interne in una identità unitaria, diametralmente opposta a una moltitudine eterogenea e plurale. La costruzione del popolo come prototipo di comunità «perfetta» diventa così, in epoca moderna, non solo l’operazione politica realmente decisiva, ma persino il presupposto basilare della civiltà nel senso più ampio del termine.
Logicamente, una tale fusione dei «molti» in un soggetto unitario sarà tanto più facile da realizzare quanto più avrà occasione di appoggiarsi a una rete di pre-condizioni, come la condivisione di una lingua, di una tradizione culturale o di una stirpe più o meno omogenea. Di qui il fatto che, in Europa, lo Stato nazionale sia rapidamente diventato il prototipo di una comunità «perfetta» nel senso moderno. È chiaro però che la «nazione» o il «popolo», nell’accezione moderna, non possono comunque mai risolversi in un semplice dato naturale, acquisito una volta per tutte. Autodeterminazione, unità e omogeneità sono il prodotto di un’azione di governo ostinata e continua, che implica rischi e conflitti, e che ha inevitabilmente un costo. E nel corso della tarda modernità, con l’aumento progressivo della complessità sociale, il costo è andato regolarmente crescendo.
[...] Date tali premesse, possiamo infine definire ipermoderna un tipo di società in cui nessuna comunità perfetta sembra poter più prendere forma, se non a un costo talmente esorbitante da screditare fin da principio il progetto politico che dovesse propugnarne realmente (e non solo a parole) la necessità. Una società, quindi, in cui possono sussistere solo comunità imperfette, capaci spesso di offrire rifugio e protezione, e destinate talvolta ad accendere la fedeltà più profonda, ma segnate in ogni caso dalla dipendenza esterna e dalla eterogeneità interna. Un mondo di nicchie, insomma, più che di popoli e nazioni. È presumibile che un simile scenario costringa a ripensare da cima a fondo l’idea stessa di un ordine civile. Ma non è questo l’unico problema aperto. Se infatti, come lascia intendere Aristotele, a spingere verso una comunità perfetta è il desiderio di condividere la vita in quanto tale, che ne è più di un tale desiderio in una società ipermoderna? Come può esprimersi, in un mondo di nicchie, il bisogno genericamente umano di dare alla propria vita una forma compiuta? E di «colmare il vuoto della creazione» riguardo al senso della vita umana?