Paul Steinbeck, Guerre jazzistiche

Guerre jazzistiche
di Paul Steinbeck


Il rapporto fra il concetto di Grande Musica Nera e il jazz era piuttosto complesso. I membri dell’Art Ensemble lo consideravano un modo per trascendere i limiti del jazz, in particolare la sua posizione all’interno dell’industria musicale. «Vogliamo evitare la vergogna del jazz», spiegava Bowie. «Quando si dice “jazz” si intende “oh-oh”: siete i meno pagati del concerto, vi danno gli alberghi peggiori, siete i meno rispettati. Il nome “Great Black Music” genera maggior rispetto». Nonostante queste preoccupazioni, i membri del gruppo non volevano abbandonare del tutto il jazz, una delle maggiori influenze nella loro pratica concertistica, anzi secondo Bowie una «radice» vitale della Grande Musica Nera. […] I membri dell’Art Ensemble sapevano benissimo di occupare un posto importante sulla scena jazzistica statunitense, anche se avevano trovato un nuovo pubblico nel mondo delle arti performative. Così, quando nella comunità jazz scoppiò la polemica sulla rapida crescita di un movimento tradizionalista guidato da Wynton Marsalis, essi si videro costretti a dire la loro.
Marsalis e l’Art Ensemble non erano partiti da posizioni antagoniste. In effetti nel 1982, anche se per un periodo troppo breve, il ventenne Marsalis aveva suonato assieme a Bowie. Negli anni successivi al 1977, quando si era trasferito a New York, Bowie si era mosso come un veterano sulla scena jazz cittadina e aveva sostenuto molti musicisti più giovani. Tra coloro che gravitavano intorno a lui c’era Malachi Thompson, un trombettista dell’Aacm che si era trasferito a New York all’incirca nello stesso periodo. Nell’estate del 1982 Bowie e Thompson fondarono la New York Hot Trumpet Repertory Company, un’anticipazione della Brass Fantasy di Bowie con una formazione ancor più insolita: solo cinque trombe, niente ottoni gravi e niente sezione ritmica. Nei ruoli delle altre trombe Bowie e Thompson assunsero Olu Dara, Stanton Davis e Marsalis, che aveva appena lasciato i Jazz Messengers di Art Blakey e stava per avviare la propria carriera di solista. Marsalis suonò con la New York Hot Trumpet Repertory Company solo per pochi mesi. Aveva ampie opportunità concertistiche con il proprio quintetto e il suo album d’esordio, inciso per la Columbia Records e uscito all’inizio del 1982, stava diventando un successo di critica. Quando Marsalis lasciò la Repertory Company, Bowie non fece una piega. Chiamò Bruce Purse a sostituirlo e il gruppo continuò a lavorare. Tuttavia le circostanze dell’improvviso abbandono resero Bowie diffidente nei confronti del suo ex collega. «Wynton rimase con noi fin quando i funzionari della Columbia non gli consigliarono di allontanarsi da quel matto perso di Lester Bowie prima di fottersi la carriera», ricordava Bowie. «Non ne discutemmo mai. Sentivo che Wynton veniva usato e che era un nemico della musica».
La frattura tra Bowie e il suo ex collaboratore si approfondì nel corso degli anni Ottanta e Novanta. I legami di Marsalis con le più importanti istituzioni culturali, fra cui la Columbia, il Jazz at Lincoln Center, il «New York Times» e il Public Broadcasting Service (Pbs), gli garantirono una solida tribuna pubblica, così divenne un portavoce della propria visione del jazz molto sicuro di sé. Per Marsalis il jazz era il più grande risultato musicale della cultura afroamericana (e della cultura statunitense in genere). Disapprovava i musicisti la cui opera deviava da quelli che egli considerava gli elementi fondamentali del jazz, ovvero le modalità basate sul blues e sullo swing con cui figure simboliche come Louis Armstrong e Duke Ellington avevano sviluppato l’improvvisazione e la composizione. Marsalis difendeva con forza le proprie tesi, spesso screditando i musicisti fusion o altri che riteneva estranei alla tradizione del jazz, tra i quali l’Art Ensemble. Questi attacchi non piacevano affatto a Bowie, che finì per diventare uno dei più feroci critici di Marsalis. All’inizio le critiche di Bowie furono relativamente morbide ed erano rivolte al Marsalis trombettista più che al suo intransigente personaggio pubblico. In un’intervista a «Down Beat» del 1984, rilasciata quando Bowie era artista ospite presso la Harvard University, le sue osservazioni suonavano come quelle di un insegnante che rimprovera uno studente bizzoso: «La cosa più difficile è sviluppare un’identità. Bisogna passare attraverso le personalità di tutti prima di arrivare a sé stessi. Spero che Wynton continui a crescere senza lasciarsi impressionare da quei ragazzi [della Columbia], con le loro grandiose dichiarazioni [...]. Wynton secondo me è un genio, ma ha molta strada da fare, e lui è il primo a saperlo. Con la tecnica di Wynton e il mio cervello avrei potuto essere uno dei più grandi».
Nove anni dopo, in un altro articolo su «Down Beat», Bowie espresse nuovamente i suoi dubbi circa le capacità di Marsalis come improvvisatore: «Quanto ci hanno messo Lee Morgan o Clifford [Brown] o Booker Little per suonare alla loro maniera? Wynton è un buon musicista, ma gli è stata assegnata una parte che non è affatto la sua. Non esiste proprio che sia il Re del Jazz, il Re della Tromba».[…]
Gli attacchi di Bowie a Marsalis non rimasero senza risposta. Nel maggio del 1994 Marsalis arrivò con la propria tromba in un club newyorkese dove Bowie stava suonando con la Brass Fantasy. Marsalis intendeva interrompere il concerto e sfidare Bowie a un duello trombettistico vecchio stile, che avrebbe in qualche modo regolato i conti con il suo avversario. La trovata non divertì Bowie, almeno secondo il resoconto del «New York Times»: «Dopo aver chiamato il signor Marsalis “ragazzo”, Bowie, che ha [...] vent’anni più di lui, non lo ha invitato a suonare». Marsalis, che certo non è il tipo che perdona e dimentica, restituì il colpo in Jazz, la serie di documentari della Pbs diretta da Ken Burns alla quale collaborava come principale consulente artistico. Nell’episodio finale della serie, Bowie appariva brevemente per raccontare come l’Art Ensemble aveva adottato lo slogan «Great Black Music». A quel punto interveniva il narratore, incolpando l’Art Ensemble di un grave crimine contro il jazz: quello di non avere un «pubblico nero». […]
La polemica fra Bowie e Marsalis era ulteriormente alimentata dalla rivalità personale fra i due trombettisti. Ogni anno, dal 1982 al 1995, l’uno o l’altro vinse il Critics Poll di «Down Beat» come miglior trombettista. […] Bowie e Marsalis erano impegnati piuttosto in una controversia filosofica circa la natura e la pratica della Grande Musica Nera. E come in tutti i dibattiti, le differenze personali (per quanto piccole potessero essere) fra le parti enfatizzavano le divergenze dei loro pensieri. In qualche modo Bowie e Marsalis erano più simili di quanto volessero ammettere. Entrambi erano impegnati nel medesimo progetto culturale, lo sviluppo della musica nera. […] Da giovani, entrambi avevano emulato i medesimi trombettisti, Louis Armstrong e Miles Davis, ed entrambi sottolineavano l’importanza dello studio della tradizione jazzistica. Ma è proprio qui che le loro strade si erano divise.
Al contrario di Marsalis, Bowie guardava la storia del jazz attraverso una lente progressista. I membri dell’Art Ensemble erano «in un certo senso tradizionalisti», per Bowie, poiché «la ribellione è la vera tradizione del jazz». Da questo punto di vista, la devozione di Marsalis per le pratiche esecutive delle vecchie generazioni sembrava paradossale. Come puntualizzò Bowie, «la rivoluzione è roba per i giovani: dovrebbe essere compito di Wynton». Marsalis, secondo la diagnosi di Bowie, non era riuscito a trovare il giusto equilibrio fra l’«Antico e il Futuro», fra i suoi interessi per la storia del jazz e le sue responsabilità come artista creativo. «Devi rivolgerti alla musica del passato per imparare a suonare», sosteneva Bowie, «ma una volta fatto, basta. Perché il jazz non è un qualche esercizio accademico». Per l’Art Ensemble, la Grande Musica Nera poteva comprendere le vive tradizioni dell’Africa e della sua diaspora, ma anche suoni di ogni tempo e di ogni luogo, ogni modalità esecutiva e qualunque cosa i membri del gruppo potessero immaginare. Come ha detto Mitchell, «la musica è esplorazione, e l’Art Ensemble dispone di un’enorme varietà di musiche tra cui scegliere».