Rem Koolhaas, Singapore Songlines

Ho compiuto i miei otto anni nel porto di Singapore. Non siamo scesi a terra, ma ricordo l'odore – dolcezza e marciume, entrambi che prendevano alle narici.
L'anno scorso ci sono andato di nuovo. L'odore non c'era più. In effetti, Singapore era sparita, raschiata via, ricostruita. Al suo posto c'era una città tutta nuova.

Praticamente tutta Singapore ha meno di trent'anni; la città rappresenta la produzione ideologica degli ultimi tre decenni nella sua forma pura, incontaminata da residui contestuali sopravvissuti. È guidata da un regime che ha escluso l'accidente e la casualità; anche la sua natura è interamente rifatta. È pura intenzione; se c'è caos, è caos ideato; se è brutta, è di una bruttezza progettata; se è assurda, è di una assurdità voluta. Singapore rappresenta un caso unico di ecologia del contemporaneo.


Come analoghe situazioni di novità, essa è stata accolta con scherno. Nonostante la nozione di Occidente diventi sempre più debole, «noi» rimarremo sempre in possesso della nostra arma ultima, il potere dell’ironia, che viene impiegata in quantità sproporzionata contro questa mini-Sparta territorialmente trascurabile: William Gibson l’ha chiamata «Disneyland con la pena di morte», Deyan Sudjic, «Città virtuale»2• Il nostro rifiuto di leggere Singapore nei suoi termini specifici è sintomo di superficialità; le nostre riflessioni più sofisticate sulla condizione urbana contemporanea sono completamente sconnesse dall’operativo; la nostra incapacità di «fare» la città è introiettata in noi a tal punto che ogni traccia della sua fabbricazione è per definizione sospetta e non credibile. Singapore è un parossismo dell’operativo, ed è pertanto inaccessibile alla nostra immaginazione e interpretazione. Singapore è incredibilmente «occidentale» per essere una città asiatica; è la vittima apparente di un processo incontrollato di modernizzazione. La tentazione è, in un ultimo, educato, piccolo spasmo di colonialismo, di lasciare che sia uno di quegli enigmi destinati a restare tali, semplicemente perché «loro» sono asiatici, o cinesi.
Questa percezione è frutto di un travisamento eurocentrico. L’«occidentale» non è più nostro dominio esclusivo. Fatta eccezione forse per le regioni delle sue origini, rappresenta ora una condizione di aspirazione universale. Non è più qualcosa a cui «noi» abbiamo dato il largo, non è più qualcosa le cui conseguenze abbiamo pertanto il diritto di deplorare; è un processo che si autoamministra, e che non abbiamo il diritto di negare -nel nome di sentimentalismi vari -a quegli «altri» che da lungo tempo se ne sono appropriati. Al massimo, siamo come genitori defunti che deplorano lo scempio fatto dai propri figli della loro eredità.
Singapore è un’isola in crescita costante, a 1°17’ a nord dell’Equatore, che si trova nel più importante punto di passaggio tra gli oceani Indiano e Pacifico. Ha una superficie di 650 km2; le sue coste si estendono per 140 km – 20 km in meno rispetto al muro di Berlino. Ha un «carattere multietnicounico»: il 75% della popolazione è cinese, il15% malese, e il 9% indiano. È il prodotto della mentediun unico uomo: Lee Kuan Yew.In quanto isola -ilsuo territorio è conosciuto -, è dotata degli elementi indispensabili per la costruzione di una mitologia: è piccola, è minacciata, deve essere protetta, è circoscritta -si tratta di una enclave -, è unica.
Singapore può apparire strana. Cinque anni fa è diventato chiaro che la curva ascendente del turismo stava per intersecare quella discendente della presenza di tracce fisiche della storia -nella corsa allo sviluppo, la storia era stata quasi interamente cancellata. Sulla stessa area che, in un passato ora ripulito, era conosciuta per la sua ampia evariegata offerta sessuale -per lo splendore dei suoi travesti­ ti -lo stato ha promosso Bugis, una intersezione nuovissima di due strade tradizionali», incorniciata da shophouses cinesi interamente nuove. Una delle strade è stata dichiarata «mercato»; l’altra ospita una esaustiva varietà di ristoranti. Al piano superiore ci sono dei club, uno dei quali - il Boom Boom Club - anticipa con discrezione la possibile resurrezione del travestitismo, sotto forma di femmine travestite da drag queen.
Il complesso è ipermodemo. I chioschi alimentari, apparentemente separati, sono collegati da un unico grande nastro trasportatore che porta i piatti a una lavastoviglie centralizzata; alla nostra prima visita siamo invitati nella sala di controllo, un muro di monitor connessi a telecamere nascoste che consentono ai controllori di zoomare su ogni tavolo, di guardare ogni transazione in ogni chiosco.
Il sistema di controllo viene mostrato con orgoglio, non con imbarazzo.
Loro pensano che non ci sarà nessun reato.
Noi pensiamo che non possa esserci alcun piacere.
Singapore chiaramente non è libera, ma allo stesso tempo è difficile dire con precisione cosa non è libero, come e dove avviene esattamente la repressione, fino a che punto il suo campo magnetico – l’inusuale coesione dei suoi abitanti – è imposto o, in modo più ambiguo, è il risultato di un «accordo», di un interesse comune percepito: libertà sospese in cambio dei benefici illimitati di un ottovolante dello sviluppo che in trent’anni non ha fatto che crescere.