Generazioni meticce
Confini e sconfinamenti nel tempo della globalizzazione
di Salvatore Natoli
Abitualmente “frontiera” e “confine” vengono usati come sinonimi, ma i sinonimi non indicano in assoluto il medesimo, e, se lo indicano, lo colgono sotto un diverso aspetto. Il confine è, certo, una linea di demarcazione, ma è anche un cum, una linea condivisa: non è necessariamente una barriera, ma è anche vicinanza, linea di passaggio. La frontiera è anch’essa confine – nel senso del latino fines terminare – ma suggerisce anche l’idea di fronte e perciò del fronteggiare, dell’opporsi. In breve, il confine non esclude il transito, la frontiera evoca la difesa e la chiusura. I confini si attraversano, le frontiere bloccano. O si forzano pagandone spesso costi altissimi. Che è poi quanto sta accadendo oggi. Di qui la contraddizione di una società ormai globalizzata ove nel contempo si ergono muri, peraltro destinati a crollare vista l’irreversibilità dei processi. Ad ogni modo, la storia documenta che frontiere e confini sono stati sempre mobili, mai definitivi. Gli uomini, come esistenze finite, sono inevitabilmente situati, sentono d’appartenere ad un territorio e sotto quest’aspetto hanno una patria, intesa nell’accezione minima ed etimologica di luogo di nascita, appunto “terra dei padri”. Ciò designa appartenenza e dà identità: o meglio l’identità d’appartenenza. Ma l’uomo è l’animale che ha orizzonti e i processi di civilizzazione – a prescindere da giudizi di valore – si sono sviluppati e imposti attivando sconfinamenti e delimitando confini. La storia mostra che i muri, sacri o meno, crollano: possono essere abbattuti per conquista, o cedere da soli perché l’assetto giuridico-politico delle società non è più congruo alle dinamiche in atto.
Per venire a noi, i confini sono oggi sempre più permeabili e tuttavia si alzano barriere nell’illusione di potere tenere fuori un’avanzata che non si può fermare. In una società globalizzata è sempre più difficile tacciare una netta linea di demarcazione dentro/fuori. Qualunque cosa accada oggi nel mondo, di dritto o di rovescio coinvolge tutti: tutti siamo cointeressati in tutto anche se non agli stessi livelli né con gli stessi guadagni o perdite. La globalizzazione, infatti, ha infranto, o comunque indebolito, le barriere territoriali, ma ha innalzato barriere verticali: ha accostato ricchezza e povertà rendendo così più visibile – e quindi meno sopportabile – il discrimine tra inclusi ed esclusi. La contiguità ricchezza-povertà ha potenziato il desiderio mimetico, che, come scrive Girard, «contamina il nostro impulso ad acquistare e a possedere»(1) e «non si limita ad avvicinare le persone: le allontana anche, e il paradosso è che può fare le due cose simultaneamente. Coloro che desiderano lo stesso oggetto sono uniti da un legame così intenso, che fino a quando sussiste la possibilità di condividerlo, sono amici strettissimi; appena essa viene meno, diventano acerrimi nemici»(2). Non v’è dubbio: la mimesi genera conflitto non fosse altro per il fatto che chi è escluso non accetta d’esserlo e pretende di accedere a ciò che gli è precluso. E lo rivendica come un diritto. Tutto ciò mette in discussione gli “assetti di potere” dati, rompe gli equilibri geopolitici, accende focolai di guerra che nel mondo più non si contano. Dai “fronti di guerra” si è passati ad una “guerra senza frontiere”: civile ormai intestina. In breve la globalizzazione lungi dall’accomunare ha reso globale la guerra. È un fatto: nelle società gli uomini, da sempre, si percepiscono e si sentono superiori o inferiori rispetto ad altri.
Sislej Xhafa, This Call May Be Recorded For Quality Service, 2012 (particolare).
Ma se la globalizzazione è motivo di conflitti è anche occasione per allargare gli spazi di libertà. Ora, nella riconfigurazione della geopolitica si tratta di vedere se quel che chiamiamo Occidente è “divenuto mondo” o se invece lo si deve ridimensionare considerandolo uno dei tanti episodi della storia evolutiva dell’umanità. Su questo punto ritengo che avesse ragione Norbet Elias quando osservava, che «l’evoluzione in Occidente è caratterizzata dal fatto che a poco a poco la dipendenza di tutti da tutti diviene generalizzata […] e l’Occidente nel suo complesso – strati inferiori e strati superiori in ciò unificati – tende nello stesso tempo a diventare una sorta di strato superiore e di centro d’interdipendenza da cui si dipartono le strutture civilizzatrici, diffondendosi in zone sempre più vaste della terra»(3). Non è facile decifrare quel che ci riserva il futuro, ma non v’è dubbio che l’Occidente è stato lo spazio storico ove è emerso quel che ha nome soggetto e che fa tutt’uno con libertà personale e diritti. In questa storia si è generato quello che chiamiamo spazio pubblico, ove ad ogni individuo è consentito perseguire i propri interessi senza negare quelli altrui, ove non esistono né possono esistere posizioni predefinite nella scala sociale perché ciò ne bloccherebbe la mobilità e impedirebbe ai singoli di prendere in mano il loro destino. Il gioco degli interessi, infatti, non è mai noto in anticipo, ma lo spazio pubblico è il luogo proprio per valutare meriti e demeriti, è il luogo della libera discussione, del dibattito sui valori. È, infine, il luogo ove gli interessi in competizione possono trovare mediazioni, guadagnare una loro legittima rappresentanza e assumere forma politica.
Quel che chiamiamo Occidente ha permesso l’ampliamento dei diritti soggettivi: sono, infatti, apparsi nuovi soggetti che hanno destrutturato la stratificazione sociale tradizionale disposta per ceti e l’hanno distribuita per funzioni. Ciò ha abbattuto antiche gerarchie, attivato una mobilità interna ai sistemi sociali, ridefinendo le appartenenze. Certo questo ha dissolto le comunità naturali, esaltando le libertà personali: si potrebbe dire perciò che si è passati dalle comunità di appartenenza – rette dall’identità e dall’obbedienza – a comunità d’elezione, fondate su interessi comuni o, di più, su valori condivisi. Ma questo processo non è affatto compiuto, ci troviamo, anzi, nel travaglio di un’inedita trasformazione. Di qui aggregazioni e disgregazioni, addensamenti corpuscolari, movimenti aleatori che l’accorciamento degli spazi, l’internazionalizzazione, di continuo favoriscono e accelerano. C’è poi la rete che fa girare il mondo stando fermi, che provoca ad una sperimentazione illimitata. Desta curiosità, amplia lo spazio del visibile anche se, come dice Blumenberg, ci può rendere disattenti «per ciò che è invisibile nel mondo»(4). Di qui il rischio di un vagabondare senza destinazione, un puro e semplice bricolage. Oggi viviamo in un perpetuo transitare, l’emergenza è divenuta una condizione permanente; la flessibilità sociale ci costringe ad assumere identità fungibili a seconda dei bisogni e delle richieste. Per questo è necessario fermarsi un momento e domandarsi “chi sono?”, “cosa voglio essere?”. E, quindi, “cosa posso fare?”. A ben considerare, molte di queste domande sorgono spontanee dentro di noi, ma presi come siamo dalle urgenze le rinviamo a tempi migliori. Di fatto le accantoniamo. E così aggiriamo continuamente noi stessi e, senza neppure accorgercene, diveniamo vittime dei nostri stessi raggiri.
Sorge allora il sospetto: ci interessa davvero conoscere la verità su noi stessi? Forse sì, forse no: nelle more si prende quel che viene, ma capita – e non a pochi – di restare per strada. Ma oggi ci tocca essere forti come non mai, pena la scissione o l’allineamento alla serie. Per fronteggiare l’improbabile, bisogna adattarsi all’imprevisto. La storia evolutiva dell’umanità insegna che ogni grande scoperta è stata segnata sempre dall’ambiguità: è stata strumento di sviluppo ed insieme pericolo. La rete consente, oggi, una mobilitazione permanente e sui temi più eterogenei: campagne per la rivendicazione dei diritti civili, per la tutela delle minoranze, per le politiche di genere, per le questioni ambientali. E poi le controversie sulle questioni dette eticamente sensibili: quelle che riguardano il diritto o meno d’intervenire nelle condizioni estreme – la nascita e morte – e infine la manipolazione stessa della vita. Per affrontare tutto questo con cognizione di causa non basta l’informazione, è necessaria la formazione. Ma i processi formativi hanno tempi lenti: a fronte delle accelerazioni crescenti è, allora, più che mai necessaria la lentezza della riflessione. Il flusso ininterrotto dell’informazione rischia d’essere solo polimathia. Sapere non vuol dire avere parole su tutto: al contrario, il pensiero è discernimento che non è solo intelligenza critica, ma è anche qualità morale. «Nulla – scriveva Marco Aurelio – è a tal punto capace di rendere grande la nostra anima, quanto il poter identificare, con metodo e secondo verità, ciascuno degli oggetti che ci si presentano nel corso della vita, e il poterli vedere sempre in modo tale da riuscire a considerare, al contempo, a che genere d’universo ciascuno di essi conferisca utilità, e di che tipo, e quale valore esso abbia rispetto all’insieme»(5).
Per essere all’altezza di ciò che il nostro tempo richiede è necessario saper valutare e decidere cosa è meglio per noi e per la società nel suo complesso. Allo scopo le scienze aiutano, ma capita che siano proprio le nuove scoperte e le innovazioni tecnologiche a generare dilemmi morali di difficile soluzione. Quel che tecnicamente è possibile, è possibile – è lecito – davvero? Quel che è fattibile è perciò stesso permesso? E come prendere decisioni su questo? Non è sufficiente lo scire per causas, bisogna avere competenza dei fini. Nelle società ad alta complessità, lo spettro delle possibilità è infinitamente più ampio di quanto agli uomini è dato realizzare nel corso della loro vita. In questo gioco acquistano e perdono di continuo identità. Oggi gli individui vorticano liberi nell’ambiente e tocca loro fronteggiare l’improbabile. Come non mai. Altro che pensiero debole; anzi in una società ove si viene sempre di più trattati come soggetti fungibili – ai limiti della deregulation –, ove si è continuamente a rischio, è più che mai necessario rimanere saldi. Infatti, a fronte e di contro all’impersonalità dei sistemi si sente ancor di più l’esigenza d’essere soggetti. Pare che ancor oggi siamo chiamati a dare risposta ai tre grandi interrogativi di Kant: «cosa posso sapere, cosa debbo fare, cosa mi è lecito sperare»(6). Interrogativi in ogni epoca ricorrenti, ma che non pare abbiano – almeno fino ad ora – trovato una definitiva risposta. In realtà se ne sono date tante e, direi anche, corrette, ma tutte provvisorie. Non saranno certo definitive le nostre: ma basta siano sufficienti ad orientarci nel qui ed ora, adeguate per dare soluzione a ciò che il tempo richiede. D’altra parte l’uomo non potrà mai afferrarsi per intero e di qui, inevitabile, il suo continuo sconfinare. Ma l’umanità resterà, di certo, preservata fino a quando si manterrà all’altezza di questo domandare.
(1) Renè Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, tr. it. G. Luciani, Adelphi, Milano 1998, p. 16.
(2) Ibid.
(3) Norbert Elias, Il processo di civilizzazione, vol. II Potere e civiltà, tr. it. G. Panzieri, il Mulino, Bologna 1983, p. 325 (corsivo nostro).
(4) Hans Blumenberg, L’interesse per ciò che è invisibile nel mondo, in Id., La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, pp. 391-406.
(5) Citazione tratta da Michel Foucault, Ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), tr. it. M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 261 (corsivo nostro).
(6) Cfr. Immanuel Kant, Critica della Ragion pura, tr. it., intr., note e apparati di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, p. 1133.