Poetica del tappeto orientale
di Sergio Bettini
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Ora poi il problema funzionale, cioè della conoscenza dell’uso
che gli orientali fanno dei loro tappeti, ci consente di compiere un
altro passo innanzi su questa via di comprensione. Sono tipici i
persiani – ma anche quelli più vicini a noi, i turchi, non differiscono
in questo – all’origine, s’intende. Giacché, non basta conoscere la
Persia, l’Iran di oggi, per averne esperienza diretta. Nella Persia di
oggi, salvo eccezioni sempre più rare, la fabbricazione dei tappeti si
è industrializzata, ed anche la coscienza del primo, genuino significato di essi si va perdendo. Dobbiamo rifarci alle antiche storie, o
a quanto ancora ricordano certi vecchi, che parlano volentieri degli
antichi tempi, quando i tappeti si sapevan fare: e li facevan le donne, anzi le bambine, con lane tinte con colori di terre o vegetali, che
non stingono, per es. col succo di limone; e su piccoli telai portatili,
non con aggeggi meccanici che son senz’anima. Mi diceva uno di
cotesti vecchi – un uomo colto del resto, che era stato in Europa: «I
nostri vecchi tappeti avevano almeno un mezzo milione di nodi per
ogni metro quadrato: chi non conosce il famoso tappeto di caccia
del Museo di Vienna, un tappeto annodato a Keshed nel Cinquecento, che ha la trama più fitta che si conosca: hanno contato i suoi
nodi, sono ottanta milioni. Ci volevano fino a dieci, anche vent’anni per annodare tappeti come quello: perché ogni pelo di lana sul
diritto, si può dire, corrispondeva a un nodo sul rovescio, ed ogni
nodo era fatto a mano, dalle dita pazienti di una ragazza. Non solo
da noi in Persia, ma in tutta l’Asia, dove si facevan tappeti, erano
donne, anzi bambine ad annodarli: le anziane sapevano distillare le
tinture vegetali e tingere le lane, le fanciulle annodavano.
C’è un nostro vecchio proverbio, che dice che le femmine fino
a undici anni sono buone per i tappeti; dopo gli undici per l’amore.
È perché fino a quell’età esse hanno le dita magre, sottili, e possono fare nodi più piccoli e più fitti. I nostri giovani di oggi non
capiscono più nulla, ma nessuno di noi vecchi può sbagliarsi nel
giudicare se un tappeto è stato annodato da una fanciulla o da una
donna adulta – e non parliamo dei Rigiar che sono tappeti duri,
pesanti, rigidi, perché annodati da uomini: un tempo erano i meno
apprezzati. Non c’era una ragazza, una volta, che non imparasse a
far tappeti: era condizione essenziale per potersi maritare, più importante della bellezza. E le ragazze facevan tappeti dappertutto: ai
pascoli, sotto le tende, negli harèm. Era un lavoro domestico, non
fatto per scopo di commercio o di guadagno. Il tappeto serviva per
nozze, per la nascita di un figlio; era tappeto di funerale, e tappeto
di preghiera. Milioni di persiani sono nati, han vissuto, sono morti
sul tappeto. Soprattutto milioni di persiani vi pregavano (una preghiera Chirvan), e vi pregan ancora, in ginocchio, cinque volte ogni
giorno: al levar del sole, al meriggio, al cadere della giornata, al tramonto, alla seconda ora della notte»… «Quando si rispettavano le
usanze degli avi – mi diceva ancora il vecchio persiano – si entrava nel tappeto della preghiera come in un tempio: ci si toglievano le
scarpe, si baciava il tessuto, si lisciavano i bordi. E se sul tappeto
erano già accovacciate altre persone, le si salutavano con ossequio,
come fate voi europei quando entrate in casa d’altri, e vi togliete
il cappello, per rispetto verso la casa, verso quello che è lo spazio
personale, privato, di ogni uomo; spazio del quale le leggi degli
uomini in ogni paese riconoscono, e hanno sempre riconosciuto,
la inviolabilità».
Così il vecchio mi conferma che quando un persiano è sul suo
tappeto, egli è in casa sua, dentro il suo spazio privato, che gli altri
riconoscono e rispettano. Il problema funzionale di quell’oggetto
non è dunque indifferente alla comprensione di quest’opera d’arte.
Un uso, qual è quello primamente attestato dalle nostre pitture del
Rinascimento, qual è quello che noi occidentali abbiamo sempre
fatto e facciamo nelle nostre case dei tappeti, sarebbe oltraggioso
per i persiani di vecchio stampo: i quali per es. non entrano (come
essi dicono) in un tappeto, senza togliersi le scarpe: non per non
consumare il tessuto, che è resistentissimo; ma per dignità e rispetto verso ciò che il tappeto significa.
Possiamo ora passare all’analisi fenomenologica della struttura
figurativa del tappeto, dalla quale ottenere la poetica implicita di
queste singolari opere d’arte. Essa non si imposta su categorie diverse da quelle delle altre opere d’arte, d’ogni luogo e d’ogni epoca,
voglio dire lo spazio, ed il tempo; ma si deve precisare (ed è qui appunto che giova la conoscenza della funzionalità del tappeto) che
si tratta di un particolare spazio e di un particolare tempo: i quali
non sono «rappresentati» – come per es. in una pittura europea dal
Quattrocento in poi, dove lo «spettacolo» dello spazio è rappresentato in una veduta prospettica. Lo spazio del tappeto orientale
non è rappresentato dai disegni e dai colori che lo compongono: è
il tappeto stesso. È perciò che vi si entra, e che lo si può paragonare
non ad un’opera di pittura, come sembrerebbe ovvio, ma ad un’opera di architettura: perché appunto anche nella nostra architettura
lo spazio non è rappresentato, ma è l’opera stessa: noi non lo contempliamo al di fuori di noi, come il paesaggio di un quadro, ma ci
viviamo e respiriamo dentro.
La struttura formale del tappeto ce lo conferma. È il campo,
la trama di fondo, che figura lo spazio; e il bordo, quella sorta di
cornice, semplice o molteplice, che lo limita tutto intorno, indica
appunto la recinzione di questo spazio, la sua chiusura: a dir meglio, la definizione dello spazio come forma. Il bordo del tappeto
ha lo stesso valore di recinzione e di definizione dello spazio, che
nella nostra civiltà hanno i muri perimetrali degli edifici.
Entro questo limite, la trama di fondo precisa ed articola la forma dello spazio; mentre il disegno, che viene intrecciato in essa, dà
forma al tempo. Il rapporto tra le due fasi, per così dire: campo e
disegno, non è rapporto tra due elementi autonomi, giustapposti o
sovrapposti; ma rapporto di reciproca, indissolubile compenetrazione; in questo di Samarcanda noi non possiamo decidere dove
finisca il campo e dove cominci il disegno, come nel concetto di
esistere non possiamo dire dove finisca lo spazio e dove cominci il
tempo.
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