Stefano Boeri, Esplorare l’invisibile

Esplorare l’invisibile
di Stefano Boeri

Negli anni in cui Italo Calvino scrive uno dei suoi libri più belli – Le città invisibili, pubblicato nel 1972 – tre architetti italiani si misurano con una sfida altrettanto ambiziosa: quella di descrivere, oltre la superficie delle forme e degli spazi abitati, le leggi e le strutture profonde delle nostre città.
Nel 1966 a Milano, nel giro di pochi mesi vengono pubblicati Il territorio dell’architettura di Vittorio Gregotti e L’architettura della città, di Aldo Rossi. Un terzo libro, Il significato delle città, che raccoglie scritti prodotti prima del 1966, uscirà nel 1975 a firma di Carlo Aymonino.
Lo scopo di questi tre libri è esplicito: ricavare dallo studio dei fenomeni urbani un fondamento logico – e, se possibile, scientifico – alle poetiche architettoniche dei loro autori. A questo fine, i tre autori si propongono di superare la soglia delle forme visibili, fino ad esplorare le strutture nascoste, profonde, che generano lo spazio abitato.
È bene intendersi: le analogie con il testo celeberrimo di Calvino finiscono qui.
Il viaggio nelle profondità invisibili della condizione urbana intrapreso da Rossi, Gregotti e Aymonino non ha lo stile della narrazione (i nostri tre autori non sono letterati), ma neppure quello del trattato scientifico o della descrizione sistematica.
Rossi, Gregotti e Aymonino sono tre noti architetti, impegnati nella professione, nell’insegnamento e nel dibattito culturale italiano ed internazionale. E proprio in quanto progettisti di spazi – e docenti di composizione architettonica – si sentono legittimati a cercare, oltre la superficie visibile, un nuovo ordine del discorso sulla città come fondamento alle regole e alle poetiche della loro architettura.
I tre libri sono diversi per stile, per sequenza di temi e gerarchia di argomenti. Parlano in modo diverso della città e propongono modi diversi di progettarla.
Se tuttavia ci appaiono oggi sorprendentemente simili, è perché condividono un particolare equilibrio tra la forma e il contenuto delle loro pagine.
A rendere questi tre testi un unicum nella letteratura architettonica e urbana è innanzitutto il fatto di nascere da un sofisticato lavoro editoriale di composizione. I tre libri sono in realtà collezioni di saggi scritti in precedenza che, come i singoli materiali di un complesso bricolage, finiscono per dar vita a un’indagine unitaria sulle strutture celate della città, a sua volta orientata a legittimare una precisa idea di architettura.
Un secondo aspetto che accomuna i tre libri concerne il loro genere letterario. Forse proprio per il loro evidente interesse speculativo (le teorie sulla città hanno sempre un risvolto operativo nella professione dell’architettura), i libri di Rossi, Gregotti e Aymonino sono infatti testi ibridi e di difficile definizione. Sono dizionari imperfetti, seppure generatori di concetti e termini; e sono manuali imperfetti, seppure fautori di regole e soluzioni. Assomigliano piuttosto a quelle guide di viaggio che uniscono in un unico volume itinerari svolti in periodi diversi nello stesso territorio; un territorio che – ci dicono i tre autori – è il grande e popoloso campo delle forme, dei fatti, dei fenomeni urbani.
Una terza e più sostanziale omogeneità nei tre volumi la si riscontra al livello della logica di costruzione del discorso sulla città. Queste tre “incursioni” oltre la superficie dei fatti urbani possono infatti essere considerate come il risvolto nell’architettura italiana di un atto di fiducia nei confronti della koiné del pensiero filosofico strutturalista. Un pensiero che viene declinato secondo i dettami dello storicismo marxiano da Carlo Aymonino, della fenomenologia della percezione da Vittorio Gregotti, della psicanalisi e della geografia umana da Aldo Rossi. I loro sono infatti itinerari interpretativi che sembrano seguire i canoni dell’analisi strutturalista: partire da una topografia del visibile (i materiali della città contemporanea europea) e costruirne una tipologia capace di inoltrarsi nelle strutture invisibili e invarianti della condizione urbana. E ricavarne infine indicazioni utili sia sull’agire dell’architettura come disciplina e corpo di teorie, che sulla poetica dei tre autori progettisti.
Le similitudini tra i tre testi finiscono qui; se il campo è unico, se l’ordine del discorso è comune, gli itinerari sono infatti molto diversi.
Il “viaggio” interpretativo di Carlo Aymonino è quello di un’indagine critica sui processi storici e strutturali dell’economia urbana, veri rivelatori del significato delle città. La sua è una lettura marxiana del rapporto tra strutture e sovrastrutture, riformulata attraverso il riscatto della dimensione del “superfluo” e del simbolico (non più solo sovrastrutturale) rispetto a quella del “necessario”.
Per la sua esplorazione, Vittorio Gregotti si affida invece alle esperienze fondamentali di percezione delle spazialità della città e del territorio. Una geografia di esperienze dell’abitare che rifiuta la storia come matrice e cerca di misurare il territorio come condizione ontologica ed esistenziale.
Il “viaggio” di Aldo Rossi, infine, nasce da una ricerca sui fondamenti primari della città, sugli archetipi della condizione urbana ereditata da secoli di storia – vero e proprio palinsesto di fatti urbani e di immaginari. Un’indagine che è insieme analisi clinica e tipologica, in un continuo rimando tra la sfera fisica e quella simbolica.
Una forma letteraria inedita, “progettata” ex post e fortemente condizionata dal paradigma logico del pensiero strutturalista funge dunque da cornice per lo sviluppo di tre diversi itinerari nella fenomenologia delle città.