Utopia, Antiutopia, Topia
di Superstudio
Dove credete di andare percorrendo la strada dell’utopia? È questa, ne siete davvero convinti, la via della salvezza dagli errori e dalle pene che ci avvolgono? Non ricordate più che questa strada è lunga quanto la vita dell’umanità e su di essa nessuno ha mai trovato un approdo? Non vedete che la sua luce è illusoria; che i paesi che in essa si incontrano sono quelli del sogno; che i laghi che da essa si scorgono sono mete ingannevoli, «fate morgane» provocate dal calore feroce del sole? Dove troverete su questa strada i sogni, le forze per risvegliare gli uomini dall’incubo della realtà? Dove le cercherete? Nel languore delle favole dette attorno ai camini; o nel torpore dei racconti di viaggio letti sul fondo di un bicchiere; o forse sperate di trovarle nelle meccaniche astrazioni sociali follemente distillate dagli inchiostri?
Cercare la salvezza nell’utopia è utopia sublimata.
Correte anche voi verso la stella credendola il lume di una casa lontana come il bambino perso nel bosco della favola.
L’utopia è sempre stata per l’uomo il lontano ammiccare di un astro, fonte di speranze illusorie e di irrealizzabili sogni e schermo all’orrore del reale, che, solo, può generare la determinazione di cercare la strada della salvezza.
Quindi solo nell’orrore è la speranza. E il Potere ha sempre conosciuto la forza di esso e con esso ha creato innumerevoli Inferni da protendere come spade contro i propri nemici nascosto dietro gli scudi delle proprie utopie. Nel sonno del betel, dell’oppio, della coca o del peyotl, si dorme felici, dimenticando la fame e i dolori, nella visione del magico El Dorado, di Antilia felice, delle grasse contrade di Cuccagna o dei campi sereni di Armonia. In questo sogno noi vogliamo introdurre le «larve» dell’Averno e i viscidi «incubi» di Bosch, i demoni infernali e i mostri di paesi e stelle lontane. Speriamo così di provocare il risveglio; sia pure nel grido e nel freddo sudore, ognuno rinascerà nella propria angosciosa realtà per decidere almeno se vuole lottare oppure preferisce lasciarsi morire.
Nell’antiutopia noi nutriamo i piccoli mostri che strisciano e si avvolgono nei recessi bui delle nostre case, negli angoli sporchi delle nostre vie, nelle pieghe dei nostri vestiti e fino nel mistero dei nostri cervelli. Nella culla dell’antiutopia noi cerchiamo di farli crescere a che divengano enormi, e la polvere e il buio non possano più nasconderli, perché ognuno, anche il più miope, li possa vedere, enormi scarafaggi kafkiani, in tutti i loro più mostruosi dettagli.
Superstudio, Il Monumento Continuo (con De Maria), 1969. Fotomontaggio
Ci rifiutiamo quindi di coltivare utopie, impossibili fiori senza profumo, fragili e delicati da conservare sotto campane di vetro.
Preferiamo invece essere pastori di mostri; evocandoli da dentro il nostro magico cerchio, li accudiamo e li nutriamo affinché
divengano grandi e si scatenino attorno.
Perché sappiamo che i nostri mostri terribili sono fatti soltanto di fumo, mentre il rosso fragile fiore che gli utopisti coltivano è come il papavero che nasconde nella corolla il lattice bianco del sonno; e questo ci fa veramente paura.
Utopia: «Luogo che non esiste. Ordinamento sociale e politicoimmaginario in cui tutti saranno felici» (Il Nuovissimo Melzi, 1926).
Topia: «Realtà esistente» (Karl Mannheim, Ideologia e Utopia, 1957).
Antiutopia: «Luogo e ordinamento sociopolitico, che si spera non debba mai realizzarsi, immaginato in funzione catartica» (Superstudio, 1971).
Pubblicato per la prima volta in «in. Argomenti e immagini di design», 7, settembre-ottobre 1972, p. 42, terzo numero monografico dedicato al tema Distruzione e riappropriazione della città.