Yan Thomas, Il valore delle cose

Il valore delle cose
di Yan Thomas

Questo saggio esamina, essenzialmente nel Corpus iuris civilis (ma non senza far ricorso ad altri tipi di fonte), la costituzione giuridica delle cose o meglio, e più precisamente, lo statuto conferito alle «cose» (res) da quelle procedure tramite le quali esse sono qualificate e valutate come beni. Una storia di queste pratiche svela un mondo sorprendentemente omogeneo e astratto. Secondo la giurisprudenza dei primi due o tre secoli della nostra era, in cui vengono riformulati dispositivi più antichi, le «cose» sono considerate quasi esclusivamente in relazione al valore patrimoniale e di realizzo che possiedono. Il loro regime è quello di appartenere regolarmente e immediatamente a una sfera sociale di appropriazione e di scambio, che si manifesta esemplarmente nella procedura civile, in cui i beni si qualificano e si valutano. Tuttavia, i testi affermano raramente in modo esplicito questa riduzione delle res ai beni appropriati e scambiati. È solo in via eccezionale che le cose sono qualificate positivamente come res in patrimonio nostro, espressione che si incontra unicamente nella letteratura didattica delle Institutiones.
Quanto alla formula res in commercio, di cui pure la romanistica usa e abusa, essa non è mai attestata nel vasto insieme delle fonti giuridiche latine. Ciò non significa che la disponibilità delle res a queste due funzioni associate non sia stata pensata. La questione è stata posta caso dopo caso, processo dopo processo, a proposito dei contratti, delle obbligazioni, dei pegni, della proprietà, delle servitù, delle successioni, delle disposizioni onerose e gratuite; tutte operazioni che si relazionano al patrimonio e che hanno a che fare con il commercio, nel senso preciso del circuito giuridico che ingloba lo scambio oneroso e il dono. La procedura civile, soprattutto, considera le res come beni che si valutano dopo esser stati qualificati – il che spiega perché res e bona, res e pecunia, res e merces, come res e pretium si equivalgano tanto spesso, e più ancora perché res designi allo stesso tempo la cosa e il processo, il valore e la procedura attraverso la quale esso è stabilito: è qui che si coglie la forma pratica in cui si è originariamente forgiato il concetto stesso di res. Il carattere patrimoniale e commerciale delle res non è mai stato formulato esplicitamente se non in modo negativo.
L’affermarsi di questa vocazione principalmente patrimoniale delle res non si coglie infatti che per contrasto rispetto al regime di indisponibilità da cui esse sono eccezionalmente colpite tanto nel diritto sacro quanto nel diritto pubblico. Perché appaia esplicitamente la loro natura giuridica di cose valutabili, appropriabili e disponibili, è necessario che alcune tra esse siano state escluse dall’area dell’appropriazione e dello scambio, e quindi destinate agli dèi o alla città, secondo un modello di tesaurizzazione comune al mondo antico ma che ha trovato la propria espressione giuridica più tipica, e forse la propria stessa concettualizzazione, solo a Roma. È allora che la giurisprudenza dell’epoca imperiale qualifica questi beni, secondo una formula paradossale e che non sempre è stata compresa, come «cose appartenenti a un patrimonio che non appartiene a nessuno» (res nullius in bonis); è allora che essa le qualifica anche come «cose la cui alienazione è vietata» o, secondo un’espressione più frequente, come «cose delle quali non si dà commercio».
È necessario cominciare analizzando il significato di simili sottrazioni al regime giuridico ordinario dell’appropriazione e dello scambio; il che impone conseguentemente di studiare i loro modi concreti di fondazione e le loro regole pratiche di amministrazione, al di là di categorizzazioni classificatorie e statuti cristallizzati, ai quali, troppo spesso, gli storici del diritto limitano le loro ricerche sulle cose.
Soltanto allora potrà essere compresa la portata di un dispositivo in realtà centrale nell’economia generale del diritto romano: l’istituzione di riserve santuarizzate rende, per contrasto, il resto del mondo – che altro non è se non quello del diritto privato – immune dalla sacralità e dalla religione. Qui tutte le cose si appropriano, si alienano e dipendono da procedure civili di valutazione.
Una volta caratterizzate le cose patrimoniali a partire da quelle che non lo sono, e una volta descritto nel suo insieme questo dispositivo così complesso, si tratta di comprendere l’idea stessa di una costituzione giuridica delle cose in generale. S’impone allora una riflessione sulla definizione giuridica delle res secondo il loro valore, e, più ancora, sulle procedure attraverso le quali quest’ultimo viene stabilito. Il diritto romano, lungi dal designare res le cose del mondo esterno, le qualifica giuridicamente «cose» in quanto le coglie in un processo – il cui nome, res, rinvia allo stesso tempo alla «cosa» messa in causa e alla «messa in causa» della cosa. Come e forse più che nello scambio, è qui che si stabilisce la loro qualificazione giuridica e il loro valore di cose, e che si comprende il loro trattamento come cose stimabili e vendibili o come cose inestimabili e riservate.
In breve, quel che propongo è un approccio proceduralista, più che sostanzialista, al diritto romano, e suggerisco che tale diritto avesse già una visione formalista e astratta dell’economia, in forte contrasto con quella presentata dall’antropologia storica del mondo antico. Se non si comprende che la storia del diritto partecipa a una storia delle tecniche e dei mezzi attraverso i quali si è prodotta la messa in forma astratta delle nostre società, sfuggirà praticamente tutto della singolarità di questa storia e della specificità del suo oggetto.