In questo libro seminale del 1928 – qui riproposto in una edizione
il più possibile fedele all’originale –, Sigfried Giedion raccoglie
la lezione più alta della scuola di critica d’arte viennese di Alois
Riegl, quella secondo cui non esistono periodi di decadenza e
ogni epoca storica vive piuttosto una costante transizione di cui
è possibile leggere nel passato i segni premonitori: «Passato,
presente, futuro sono per noi un processo inscindibile». In tal
modo l’analisi storica si lega ai problemi contemporanei e quindi
offre una visione globale della storia dell’arte e della cultura
materiale, cambiando così anche le sorti dell’architettura, perché
la libera dai paradigmi stilistici o accademici.
Le grandi frecce di sapore costruttivista che Giedion dispone
nel libro sotto la supervisione di László Moholy-Nagy – grafico
responsabile, fra l’altro, dei libri della Bauhaus – uniscono
visivamente autori francesi dell’Ottocento ad altri tedeschi del
Novecento (Jules Saulnier a Ludwig Mies van der Rohe, Gustave
Eiffel a Walter Gropius), suggerendo in questo modo una linea
evolutiva che la comparsa di nuovi materiali come il ferro aveva
accelerato e orientato verso la creazione di inedite tipologie
architettoniche quali gallerie coperte (i «passages» parigini),
esposizioni internazionali, grandi magazzini, oltre a colossali
infrastrutture. Un repertorio moderno che aveva appassionato
Walter Benjamin, il quale non solo paragonò questo libro alla
Spätrömische Kunstindustrie riegliana, ma lo prese come testo
prediletto: grazie a Giedion aveva trovato nelle grandi costruzioni
metalliche la metafora della condizione stessa dell’intellettuale
critico che intendeva essere – Parigi, capitale del XIX secolo
seguirà di conseguenza.
Il capitolo finale, dedicato al materiale più moderno di allora
(«È vano parlare di nuova architettura in Francia senza toccarne
l’elemento base: il cemento armato»), presenta invece solo
esempi francesi: i fratelli Auguste e Gustave Perret, Tony
Garnier e naturalmente Le Corbusier, campione della nuova
generazione. Come rileva Jean-Louis Cohen nell’introduzione,
«La narrazione spesso enfatica offerta dal libro, specialmente
al “lettore frettoloso” che si limita alle didascalie delle
illustrazioni, sembra combattuta fra propaganda e storia.
A questo titolo, Giedion appartiene tanto (se non più) al corpus
interno dell’architettura moderna quanto a quello della ricerca
storica su di essa».
«Sulle scale inondate d’aria della Torre Eiffel,
meglio ancora sui fianchi di ferro di un pont
transbordeur, ci si imbatte nell’esperienza
estetica fondamentale dell’architettura odierna:
attraverso la sottile rete di ferro tesa nello spazio
aereo, scorrono le cose – navi, mare, edifici,
tralicci, paesaggio, porto. E perdono la loro
forma definita: volteggiano discendendo l’una
verso l’altra, si confondono simultaneamente».
Sigfried Giedion (Praga 1888 - Zurigo 1968) è stato il più importante storico dell’architettura del Novecento. Si laureò in ingegneria a Vienna, fu in seguito allievo di Heinrich Wölfflin a Monaco, quindi iscritto alla Bauhaus di Walter Gropius, che seguirà come docente a Harvard nel 1938, dove trova fra i suoi studenti il giovane Bruno Zevi. Dal 1928 fino al loro scioglimento nel 1956, è stato segretario dei CIAM (Congressi Internazionali di Architettura Moderna). Dal 1946 ha insegnato presso l’ETH di Zurigo, alternando alcuni corsi al MIT di Boston. Fra i suoi libri tradotti in italiano, ricordiamo Spazio, tempo e architettura. Lo sviluppo di una nuova tradizione (Hoepli, Milano 1954); L’eterno presente. Uno studio sulla costanza e il mutamento (2 voll., Feltrinelli, Milano 1965, 1969) e L’era della meccanizzazione (Feltrinelli, Milano 1967).