Che l’arte contemporanea, attraverso biennali,
neo-istituzioni museali e mercati finanziari,
sia diventata oggi un fenomeno globale, è un
dato certo. Molto meno certo è che il paradigma
«Arte», per come si è istituito nella sua eredità
modernista, appartenga a una moltiplicazione
di visioni, a una latitudine di storie diverse
e incrociate, a contesti trasversali e differenti.
Nella scena artistica contemporanea si ha
l’impressione che «essere uguali» non significhi
altro che appartenere alla stessa istituzione Arte.
Emanciparsi vorrebbe dire allora appartenere
all’Arte come a uno stesso mondo, condividere
un mondo già istituito che, come tale, non può
che riprodurre all’infinito ciò che è già implicito
in esso. Nonostante tutto, il nostro modello
di arte continua ad essere molto simile a quello
di una istituzione in grado di determinare
l’integrazione delle minoranze nella misura
maggioritaria (nell’identità, nell’unità) oppure
la loro esclusione.
Con un certo scetticismo tanto per gli effetti
della globalizzazione che per le più recenti
premesse della cosiddetta de-globalizzazione,
l’antologia Utopian Display cerca di raccogliere
esperienze curatoriali maturate negli ultimi
trent’anni in differenti contesti geopolitici,
dall’Africa alla Cina, dall’India all’America Latina,
dal Medio Oriente fino allo spazio
post-sovietico. Gli autori, appartenenti
a differenti generazioni, sono tra le voci
più importanti e sperimentali della ricerca
curatoriale contemporanea.