«Già da tempo gli architetti sono coscienti della falsità di una loro posizione “demiurgica” in seno ai conflitti sociali, e per molti ciò ha significato l’abbandono definitivo di ogni tipo di lotta, per altri ha significato la necessità di uno spostamento della lotta stessa in campi che sembravano più idonei per influire sulle cause prime di quelle disfunzioni. Da ciò il rifugio nell’urbanistica: ma ben presto ci si accorse che quando un’intera civiltà è in crisi, nessun settore ha in sé la possibilità di offrire soluzioni decisive».
Subito dopo la laurea, Manfredo Tafuri, in parallelo
all’insegnamento universitario come assistente di
Ludovico Quaroni, si è impegnato nella progettazione
architettonica e nella «critica in atto» sulle questioni
più cogenti del primo dopoguerra, in particolare
a Roma.
I suoi interventi pubblici giovanili, elaborati insieme
ad alcuni compagni universitari (Enrico Fattinnanzi,
Giorgio Piccinato, Vieri Quilici), sono quindi equamente
divisi fra i temi della scala urbana, concernenti cioè la
speculazione edilizia e gli alloggi sociali messi in campo
dallo Stato; la salvaguardia dei beni monumentali,
per cui il giovane architetto partecipa alle iniziative
di Italia Nostra a fianco di Antonio Cederna, Italo
Insolera e altri; la collaborazione con la rivista milanese
«Casabella‐Continuità» diretta da Ernesto Nathan
Rogers, per la quale si occupa della «nuova dimensione»
assunta dai progetti pubblici, vale a dire la grande scala
dei centri direzionali e della «città territorio» che in
quegli anni di boom economico e grandi migrazioni
interne infiammavano la discussione urbanistica.
Secondo Tafuri, tutto ciò non poteva certo «risolversi
curando lo studio dei singoli problemi edilizi, ma per
le sue dimensioni, richiedeva una scala più vasta, la
scala del piano regolatore comunale, se non di quello
territoriale e conseguentemente la riforma totale del
regolamento edilizio». A questa stagione appartengono
i saggi qui riuniti per la prima volta.
Ben presto, pur diventando un interlocutore abituale per
tutta la nuova generazione di architetti del dopoguerra,
da Carlo Aymonino ad Aldo Rossi, da Giancarlo De
Carlo a Vittorio Gregotti, Tafuri si sarebbe sentito
sconfitto per non aver influito sulla gestione – o
meglio, sulla mancata gestione – dello sviluppo urbano
della capitale e in generale di tutte le grandi aree
metropolitane del Paese. Come sostiene Giorgio Ciucci,
«Tafuri era giunto alla conclusione che non era dato
all’intellettuale cambiare il mondo, e che tuttavia doveva
inevitabilmente lavorare per quel cambiamento».
Manfredo Tafuri (Roma, 1935 - Venezia, 1994) è stato uno degli storici dell’architettura e della città più importanti del XX secolo. Dal 1968 ha insegnato presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia influenzando generazioni di architetti, urbanisti e storici. Tra i suoi numerosi libri, tradotti in molte lingue, si ricordano Architettura contemporanea (con Francesco Dal Co, Electa, 1976) e, per i tipi di Einaudi, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70 (1980), Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura (1985), Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti (1992).