Esitare, incespicare sulle proprie parole, riprenderle e ricominciare. Dire una parola per un’altra, interrompersi e tacere, oppure correggersi, riavviare il discorso e bloccarsi all’intoppo successivo. Parlare è faticoso: è colmare lacune che affiorano nell’esercizio quotidiano del gesto verbale. Eppure si parla, anche fluentemente. E parlare è sentirsi parlare: magari «si può non farci attenzione, ma è certo che si ode il suono delle proprie parole». Così affermava Lacan, e con Lacan tutti gli autori che si sono misurati con quest’aspetto dell’attività di linguaggio. Diversi per tradizione e sensibilità, studiosi di enunciazione, psicoanalisti e scienziati cognitivi hanno identificato la presenza di una «funzione muta del linguaggio» nella figura stessa del parlante. Da taluni chiamata «auto-ricezione», da altri «auto-ascolto» o «intesa silenziosa», questa funzione è sincronicamente operante nel gesto verbale, è il rimedio provvisorio che il parlare procaccia alle proprie lacune: se vi è un margine di ripresa in ciò che fa buco nel discorso, lo si deve alla funzione muta del linguaggio.
Francesco La Mantia è professore associato di Filosofia del linguaggio all’Università di Palermo. Si occupa di teorie dell’enunciazione e semantica catastrofista. Più recentemente ha orientato le sue ricerche nel campo della psicoanalisi lacaniana. Tra le sue principali pubblicazioni ricordiamo Pour se faire langage (Academia, 2020), Che senso ha? Polisemia e attività di linguaggio (Mimesis, 2012). Insieme a Charles Alunni e Fernando Zalamea è curatore del volume Diagrams and Gestures in preparazione per Springer.