«Non c’è niente di più difficile che spingere davvero una musica ad andare al di là dei propri limiti. Io lo so, perché ci ho provato».
In quel microcosmo caotico e vivacissimo che
è la vicenda del jazz, Paul Bley ci appare come
un musicista inclassificabile. Sfugge a tutto:
non proviene da nessuna scuola specifica, non
è collocabile in un’area stilistica, il suo percorso
creativo non segue il classico sviluppo lineare.
Lo incontriamo in tanti momenti cruciali
della storia: è stato un pioniere del free jazz
sul pianoforte, si è avventurato prima di tutti
nell’improvvisazione con i sintetizzatori, ha
esplorato in modo spregiudicato la multimedialità
audio-video, ha guidato la Jazz Composers
Guild, la prima associazione di jazzisti
d’avanguardia, ha gestito una casa discografica
indipendente, la Improvising Artists Inc.
Senza contare che è stato preso a modello da
altri importanti pianisti: su tutti Keith Jarrett,
che lo venerava, e che ancora nei primi anni
Settanta suonava come il Bley di un decennio
prima. Eppure egli ci appare ancora un artista
inafferrabile, una figura a tratti sfocata.
Questa sua autobiografia è preziosa: mette
ordine nella vita di un artista multiforme
e ci offre importanti testimonianze interne
al mondo della musica.
Paul Bley (1932-2016) è una figura chiave del pianoforte jazz contemporaneo. Nato a Montréal, fin da giovanissimo ha l’occasione di suonare con leggende del calibro di Charles Mingus, Charlie Parker e Lester Young. L’incontro con Ornette Coleman gli fornirà le basi per sviluppare un proprio linguaggio. La sua etichetta discografica, la Improvising Artists Inc., ha segnato il debutto di Jaco Pastorius e Pat Metheny.
David Neil Lee, scrittore e contrabbassista, ha collaborato a lungo con la rivista canadese di jazz «Coda» e, assieme alla moglie Maureen Cochrane, ha fondato e diretto la casa editrice Nightwood Editions. Oltre a Liberare il tempo, ha pubblicato The Battle of the Five Spot (2006).